"Il congresso è iniziato, renziani all’opera. Attaccano il segretario per logorarlo"

Intervista ad Andrea Orlando, neo ministro del lavoro e numero due del partito. "Nardella e gli altri sindaci? Vedo tornare rigurgiti centristi ormai fuori tempo"

Andrea Orlando, classe 1969, è titolare del dicastero del Lavoro dal 13 febbraio

Andrea Orlando, classe 1969, è titolare del dicastero del Lavoro dal 13 febbraio

Firenze, 25 febbraio 2021 - Per andare alla radice delle critiche e delle accuse che in questi giorni stanno avvelenando le acque del Partito Democratico, è necessario tornare a tre anni fa, dice Andrea Orlando, neo ministro del Lavoro nel governo Draghi, vice segretario Dem. «È necessario tornare a quando si consumò il fallimento di un’esperienza politica arrivata al capolinea con le elezioni del 2018». Renzi, il renzismo, tutto ciò che è stato, che ha rappresentato e che ha lasciato in eredità dentro un partito alla ricerca di una nuova vocazione.   

Ancora Renzi. Un’ossessione. «Tutt’altro. La sua è stata una stagione e una linea politica importante, ma che sarebbe sbagliato identificare con una persona. C’è invece la rimozione delle ragioni della sua fine: l’isolamento politico e sociale. Un’esperienza mai rielaborata dal partito. In questi giorni stanno riemergendo le scorie di un processo di riflessione non portato davvero a compimento». Orlando parla dopo le interviste di alcuni esponenti di spicco Dem: sindaci che hanno duramente attaccato la segreteria e la direzione, mettendo in discussione gestione e linea politica, a cominciare dal dialogo coi 5 Stelle. Ha iniziato Nardella (La Nazione, 21 febbraio), gli hanno fatto eco Gori (La Stampa, 24 febbraio) e Decaro (Repubblica, 24 febbraio). 

I sindaci sostengono che il Pd sia a rischio estinzione.

«In questa fase è più che mai necessaria l’unità, che non può essere sacrificata sull’altare della reticenza. Del resto Zingaretti ha lavorato e sta lavorando duramente in nome dell’unità, sebbene la sua generosità non sia sempre ripagata».  

Che cosa intende dire? «Stanno emergendo rigurgiti di posizioni che guardano a un Pd del passato, improntato verso un centrismo non più al passo coi tempi».   

Per stare al passo coi tempi dovete allearvi coi 5 Stelle? «Dobbiamo non sprecare un percorso politico che, grazie anche al governo giallorosso ha riportato l’Italia in Europa, ha inaugurato una stagione di riforme, ha ricominciato a dialogare con quella parte della società civile che non si sentiva più rappresentata da un partito che aveva smesso di guardare ai deboli, ai lavoratori, alle periferie. Insomma, nel 2010 il Pd doveva conquistare il ceto medio. Oggi deve riconquistare quel mondo rimasto ai margini per colpa della crisi economica prima, della pandemia poi, nel quale ci sono molto ceto medio impoverito e imprese in difficoltà».  

I vostri critici dicono: il Pd sta perdendo la sua vocazione maggioritaria. «Il Pd da solo non ha i numeri per governare. E questa è aritmetica. Gli stessi che non vogliono il dialogo coi 5 Stelle auspicano il ritorno al maggioritario: ma le due cose chiaramente non stanno insieme. Con questi numeri il partito si condannerebbe all’irrilevanza».  

E lei quale sistema elettorale auspica? «Il bipolarismo è il sistema più virtuoso. Ma non si può ricreare in vitro con una legge elettorale. Non si può ignorare la storia. Bisogna arrivarci attraverso un processo di cambiamento che può passare anche da una fase di sistema proporzionale, che ridefinisca due poli: riformisti da un lato, sovranisti dall’altro».  

Sovranismo fa rima con populismo. E voi Dem eravate i primi a tacciare i pentastellati di populismo. «Guardi, il populismo è una febbre, è il segno di una difficoltà della democrazia a individuare e risolvere problemi con una risposta politica. Non vorrei che mentre i 5 Stelle ne escono, ci siano in noi regressioni populiste: vedi le affermazioni da pianerottolo di autorevoli esponenti del Pd che contrappongono Palazzo e territorio, Roma e periferia».   

Secondo lei è necessario un congresso, come auspica Bettini? «Bettini, bersaglio di ingiustificate aggressioni personali, indica un’evidenza: il congresso è già iniziato, nella sostanza. Certo: è indubbio che il Pd debba iniziare una fase di cambiamento, interrotto dalla pandemia, con un confronto costruttivo. La cosa strana è che chi critica non si è mai esposto nelle sedi ufficiali. Non solo: non vuole neppure un congresso».  

E come mai secondo lei? «Diciamolo con chiarezza: puntano a un logoramento del gruppo dirigente».   

Lei è entrato a far parte di un governo che il Pd ha deciso di sostenere lealmente. Ma è stato molto critico con Matteo Renzi che questa crisi l’ha di fatto innescata. Oggi si sente di rivedere la sua posizione? «Scatenare la crisi è stato sbagliato, in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo. Ma Renzi lo ha fatto per un obiettivo: spaccare il fronte Pd-5 Stelle. Lo stesso obiettivo che oggi hanno alcuni esponenti democratici».  

È in questo senso che parla di rimozione mai rielaborata del renzismo? «Proprio in questo senso».  

E di Conte cosa pensa? Che effetto le ha fatto sentirlo proporsi come federatore di una nuova alleanza riformista tra Pd, 5 Stelle e Leu? «Conte è stato il punto di equilibrio di questo dialogo che fino a poco più di un anno fa pareva impossibile. Non solo: è anche l’uomo che ha traghettato i 5 Stelle verso il centrosinistra. Questo gli riconosco, e su questo solco tracciato credo che continuerà a lavorare».  

Ministro, cosa risponde ai sindaci che non si sentono rappresentati? «Gli organismi del partito sono pieni di sindaci. Sparare indistintamente a zero sul partito è solo fare populismo con altri mezzi. Iniziamo un confronto con misura e lealtà».