LINDA MEONI
Cultura e spettacoli

Condannati a convivere con le guerre. Francesca Mannocchi: “Abbiamo fallito noi, non il diritto”

La giornalista ai Dialoghi di Pistoia col racconto della vita nei luoghi di conflitto armato

Condannati a convivere con le guerre. Francesca Mannocchi: “Abbiamo fallito noi, non il diritto”

Pistoia, 23 maggio 2025 – Dalle baracche di Shatila, Libano, non filtra luce, neanche quella artificiale. Qui vivono senza patria circa ventimila persone, parte di quella marea umana che nel 1948 lasciò la Palestina con la promessa di un ritorno. Invisibili, quegli esodati non hanno diritti, a malapena d’esistere. Stop. Seddine ha quattro anni. Ora è a Doha, Qatar, in un complesso costruito nel 2022 per i mondiali di calcio. Da tempo ci vivono i palestinesi fuggiti da Gaza. Come Seddine. Mamma, papà e i suoi fratellini non ci sono più. Morti sotto le bombe, i corpi mai ritrovati. Stop.

Maxim è un giovane ingegnere. Vive alle porte di Kharkiv, Ucraina. Un giorno esce di casa e anziché andare in ufficio come d’abitudine va a prendere un Ak-47. Difenderà il suo paese, anche se un fucile in mano prima d’ora non l’ha mai preso.

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Bambini e ragazzi in fila per una razione di cibo nella Striscia di Gaza

Tre vite appena nel mare delle storie che la giornalista Francesca Mannocchi (reduce dal trionfo ai David col film documentario Lirica Ucraina) ha raccolto in questi tempi di guerra. Gaza, Kharkiv, poco importa. Perché ciò che pulsa è una stessa paura: che il dolore diventi cronico e stanco agli occhi del mondo. Mannocchi sarà ai Dialoghi di Pistoia (stasera alle 21.30) a parlare di ciò che più conosce: “Vivere e convivere in luoghi di guerra“.

Condannati a convivere con le guerre. Francesca Mannocchi: “Abbiamo fallito noi, non il diritto”

Mannocchi, si può davvero invertire il racconto e parlare di vita in luoghi che evocano morte?

“Si deve. Spesso, tra massacri e numeri, dimentichiamo di raccontare la straordinaria capacità di adattamento delle persone alla vita in tempo di guerra. Riescono a trovare un antidoto alla paura, a mantenere la dignità. Questa vita che resiste è un pezzo di racconto necessario”.

Ha detto: “Non è stato il diritto internazionale a fallire. Siamo stati noi”. Dov’è l’inciampo?

“Il diritto internazionale umanitario è gestito dagli uomini. È stata la più grande conquista del secondo conflitto mondiale. ‘Mai più’, dicemmo. Ma se le norme sono inapplicate allora è l’uomo che fallisce. Gli eccessi di timori da parte di alcuni governi da un lato, l’infragilimento in atto da ben prima degli ultimi due conflitti, hanno portato allo smantellamento della legittimità di alcuni organi sovranazionali. In Italia lo abbiamo visto coi fenomeni migratori al centro del dibattito, poi non più, con le ong salvatrici poi taxi del mare”.

Invoca lucidità anziché speranza: per questo mostra testimonianze strazianti?

“Abbiamo superato i confini di tollerabilità morale. I tempi che viviamo sono sempre più cupi. Non la speranza: dovremmo abitare il tempo che viviamo. Di radicali ingiustizie, di cinica brutalità, di cui non abbiamo mai fatto esperienza in modo così diffuso”.

Ha mai avuto la sensazione di essere una voce scomoda?

“Quelle dei bambini palestinesi mutilati sono voci che anche i migliori faticano ad ascoltare. Se questa è scomodità, allora sì, le loro voci sono scomode. Il nostro lavoro è portare i lettori in luoghi inospitali”.

Come si restituisce credibilità alla parola pace?

“Accompagnandola dall’aggettivo ‘giusta’. E la giustizia che c’è intorno alla pace non la possiamo definire noi. La devono stabilire quelli che la guerra la subiscono”.

Ancora guerre: quelle di cui non si parla o si parla poco sono guerre minori?

“Sono guerre dimenticate. Sono appena tornata dal Ciad. In tutto il paese vivono ottocentomila rifugiati. La più grave crisi umanitaria del mondo è lì, a due passi, in Sudan, unico posto dove è stata ufficialmente dichiarata la carestia. Eppure fatichiamo a entrare in empatia. Su questo non ci dobbiamo arrendere, anche a costo di apparire soli nel deserto”.

Con i suoi ultimi libri lei parla ai ragazzi. Perché proprio a loro?

“È la presa d’atto di un fallimento. Mi sono detta: se con gli adulti fatichiamo, proviamo a ripartire dai ragazzi. Ho avuto accesso a tante storie e ho pensato che trovare una formula per raccontarle ai più giovani avrebbe potuto avvicinarli a mondi che per loro sono solo uno scrollo su TikTok”.