L'ex deportata Edith Bruck incontra i ragazzi: "Vi racconto il mio inferno"

Da Auschwitz a Dachau, passando per Bergen Belsen: l'odissea e l'orrore per la testimone ungherese, oggi 91enne, sono incancellabili. Tanti gli studenti che hanno avuto l'opportunità di ascoltare la sua storia e riflettere

Edith Bruck

Edith Bruck

Pistoia, 27 gennaio 2023 - «Ci rasarono, ci spogliarono. Ci misero un numero al collo. Il mio era 11.152. Zoccoli ai piedi, indosso una palandrana grigia. Ci misero in fila l’uno dietro l’altro a forza di botte. Avvenne tutto così rapidamente da non riuscire neppure a dire addio a chi lasciavamo per la strada. Lager 5, blocco 11: cominciava allora un inferno indescrivibile, qualcosa che neppure le parole possono raccontare. Ma l’ho promesso a chi, esalando l’ultimo respiro nei campi della morte, mi supplicò una sola cosa: raccontare». Aveva solo tredici anni Edith Bruck quando mise piede a Auschwitz, colpevole d’essere ebrea in un mondo abbruttito da ideali folli e disumani. Ciò che i suoi occhi videro e che il suo corpo patì sono oggi una ferita impossibile da sanare.

Ecco che condividere appare la strada necessaria ed è ciò che è accaduto nei giorni scorsi per la ex deportata ungherese in un incontro rivolto alle scuole, al quale hanno partecipato studenti del liceo Amedeo di Savoia, del Forteguerri, del Pacini, delle Mantellate, del Capitini, del Marchi-Forti e del Martini in un appuntamento inserito nel più ampio contesto del progetto «Le parole di Hurbinek». Da oltre sessant’anni Edith Bruck entra nelle scuole, incontra i ragazzi, non si stanca di parlare, pur nello strazio di rivivere momenti così pieni d’orrore. «Sono nata in un minuscolo villaggio dell’Ungheria, ultima di sei figli – esordisce lei -. Lo strazio iniziò negli anni dal ‘42 al ‘44. La propaganda nazifascista aveva corrotto anime e menti della gente. Emarginazione, odio, insulti, botte: tutto era concesso fare a un ebreo. Una mattina presto di aprile dei gendarmi bussarono con forza alla nostra porta. Mamma stava facendo il pane per noi. Era una giornata che sapeva di famiglia. Ci vollero cinque minuti, capii subito che qualcosa di definitivo stava succedendo. Che non valevamo niente. Ci condussero nel ghetto del capoluogo dove restammo per cinque settimane. Poi il viaggio nei vagoni bestiame, l’arrivo ad Auschwitz. Non sapevamo cosa fosse. Ma non ci volle molto a capirlo».

La separazione dalla famiglia, le umiliazioni, le sofferenze, l’angoscia che ogni giorno potesse essere l’ultimo - «ogni giorno una selezione, ogni giorno potevi morire di qualsiasi cosa, fossero state le botte, la fame o il freddo» -, i trasferimenti di campo in campo e ogni volta Edith a non stancarsi di ritrovare piccoli fari nella notte, piccoli segnali di umanità. «Come quando a Dachau, dopo aver pelato una quantità enorme di patate, carote e rape, recandomi nelle cucine un cuoco mi chiese: ‘Wie heisst du?’, come ti chiami?. Qualcuno mi ricordava che avevo un nome, che ero una persona. Che ero viva». Gli aneddoti sono carichi di emozione, obbligano a trattenere il fiato, fanno sudare le mani anche in una giornata gelida: la marcia della morte da e verso Bergen-Belsen, altro luogo degli orrori, i mucchi di corpi senza vita ammassati all’ingresso dei campi. E infine la libertà per mano degli angloamericani, nell’impossibilità pure allora di trovar pace.

«Tornati a casa – conclude Edith – ci rendemmo conto di non essere ascoltati, accolti. Nessuno sapeva come e dove ricominciare. Eravamo soltanto degli avanzi di vita. Lì è cominciata per me una lunga odissea, anni e anni nei campi di transito, vicino a Monaco, poi in Israele e infine il mio arrivo a Napoli. Lo sguardo della gente, quella leggerezza e il calore suggerito dai panni lasciati a svolazzare all’aria mi invitavano a restare. E così feci». Da allora molti libri, incontri, testimonianze si sono succedute, tutto per non dimenticare l’enormità di quello strazio. «Abbiamo il dovere di tenere viva questa memoria del ‘900. Ciò che è accaduto non assomiglia a nient’altro. Ma voglio anche dire: ci sono altre sofferenze altrove e ovunque e tutte, nessuna esclusa, ci riguardano da vicino. Ricordando sempre che siamo figli di ieri: un tempo che passa trascina il male e il bene nell’altro tempo che verrà».