FRANCESCO SCOLARO
Cronaca

"Giocavo a calcio tra i veleni della falda"

Farmoplant: Ruggero Porta era il portiere della Massese che si allenava accanto alla fabbrica. "Il fango entrava in bocca: un odore nauseabondo"

di Francesco Scolaro

Erano gli anni ‘80. L’esplosione della Farmoplant, avvenuta nel luglio del 1988, doveva ancora scuotere nel profondo la comunità apuana. La nuvola nera nel cielo, la paura e la fuga, gli scontri sociali fin nel cuore della città arriveranno solo alcuni anni dopo. Ma la presenza dell’industria chimica pesante bruciava già sulla pelle e nelle coscienze di chi iniziava a lottare per la salute e l’ambiente. I segnali non erano d’altronde i più incoraggianti e l’impianto della Farmoplant aveva già vissuto il suo primo grande incendio ad agosto del 1980, con successiva chiusura dello stabilimento. Solo temporanea. C’era voglia di vivere. Soprattutto c’era la certezza, nutrita da una forte speranza, che tutto fosse fatto a regola d’arte. Lì, dove tutto era metallo e industria, era stato persino realizzato un campo da calcio: il simbolo di una comunità che provava a vivere fianco a fianco con la grande industria. La stessa industria che dava lavoro e pane sulla tavola a migliaia di famiglie.

C’è chi, però, quel campo lo ha calcato proprio in quegli anni e oggi lo ricorda. E lo vive con occhi e pensieri diversi pensando a tutto ciò che in realtà è stato e non è stato fatto. Ruggero Porta giocava nella Massese. Era il portiere. Un ‘mestieraccio’ nel mondo del calcio. Ultimo baluardo della difesa, ha un compito ben preciso: impedire che il pallone varchi la linea. E per farlo deve tuffarsi, lanciarsi più e più volte a terra. In partita come in allenamento. Mangiando la polvere e il fango.

"Ci allenavamo alla Farmoplant – ricorda oggi Ruggero –. Il campo da calcio era all’interno della proprietà dello stabilimento e ci si accedeva da uno stradello accanto al fosso, quello che si vede percorrendo via Dorsale, al semaforo con la strada nuova che porta verso mare su via Massa-Avenza. Al confine del campo c’erano due capannoni abbandonati che erano stati oggetto dell’incendio del 1980, da quel che ricordo. Quelle inquietanti strutture scheletriche sembravano farci compagnia ad ogni allenamento. Nelle giornate piovose il fango era cosa normale. In quel ruolo si va a terra decine di volte ed è normale imbrattarsi la faccia, così come è normale ritrovarsi a sputare il fango che ti entra in bocca".

E quel fango non sapeva di terra e acqua. "Ricordo perfettamente sapore e odore nauseabondi. Spesso accadeva che qualche pallone andasse a finire nei capannoni, e toccava proprio ai portieri andare a raccattarli – racconta –. Passavamo attraverso uno strappo della rete di recinzione ed entravamo dentro. I palloni galleggiavano su una schiuma densa e verdastra che era lì dai tempi del primo incidente. Era alta 50 o 60 centimetri e ci entravamo dentro fino alle ginocchia, piano piano, fino a recuperare tutti i palloni. Facevamo a turno e ci davamo una mano, perché era tutto schifosamente impressionante e puzzolente".

Odore di veleno nella terra e nell’acqua prelevata dalla falda per lavarsi: "Per non portare il fango a casa facevamo la doccia vestiti nello spogliatoio di cemento prefabbricato. Puzzava anche l’acqua che probabilmente proveniva da pozzi che la prelevavano nella falda sottostante". La stessa acqua che ancora oggi, dopo trenta anni, attende di essere bonificata. Ma a quel tempo c’era la speranza che alimentava la certezza che tutto fosse in regola: "Allora non ci si faceva caso. Era tutto normale, pensavamo a giocare e non avevamo l’età per farci certe domande – conclude Ruggero –. Oggi mi chiedo se i nostri dirigenti, i nostri allenatori, si fossero mai posti il problema. Non manderei mio figlio ad allenarsi in un posto simile. Oggi quel campo non esiste più, l’area è stata ‘bonificata’ ma è tutto ancora maledettamente inquinato, e non è stato nessuno".