Un secolo di Pci tra fedeltà e tragedie

Giovanni

Pallanti

Oggi, 21 gennaio, è il centenario della fondazione del Partito comunista d’Italia. Così fu chiamato a Livorno un secolo fa. Quando Karl Marx e

Friedrich Engels scrissero il Manifesto del Partito comunista, nel 1848, pensavano a un progetto ideale che doveva essere conquistato dai lavoratori di una società industriale avanzata. Non andò così.

Nella Russia contadina, nel novembre del 1917, un colpo di stato militare ordito dai comunisti di Lenin, abbatté la Repubblica russa fondata dopo la cacciata dello zar Nicola II il 17 settembre 1917.

L’innesto del pensiero di Lenin su quello di Marx è all’origine di una tragedia illuminata anche da generosi eroismi di singoli esponenti comunisti, che verranno tritati umanamente e politicamente dallo stalinismo. A Livorno, nel 1921, parlò al congresso socialista a nome della fazione comunista, Umberto Terracini, che annunciò la scissione e la nascita del nuovo partito legato a Mosca.

Nel 1939 Terracini fu espulso dal Partito comunista, per avere criticato il patto tra l’Unione Sov ietica e la Germania nazista, tra Stalin e Hitler, sulla divisione della Polonia.

Stessa sorte toccò a Gramsci mentre era in carcere. A Firenze, nel secondo dopoguerra, il Partito comunista italiano di Togliatti, ha avuto un grande ruolo, anche se la Dc, assieme ai socialisti, fino al 1995 ha governato per più anni dei comunisti.

La storia dei comunisti è il susseguirsi di una doppiezza: fedeli all’imperialismo sovietico con un gruppo dirigente italiano e fiorentino venato di socialdemocrazia.

Una doppiezza che nel 1989 ha chiuso i battenti a Mosca, a Firenze e in Italia.

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