
Da sx la direttrice Pini, don Ciotti, Tommaso Sacchi, Simone Bellocci (New Press Photo)
Firene, 3 luglio 2020 - «La mafia sta facendo affari anche con la pandemia. Occorre un cambio di rotta, un modo meno ostentato di vivere la legalità, che deve essere un fondamento della nostra vita». Un viaggio nella legalità non ostentata ma vissuta come uno stile di vita, attraverso le storie anche scomode di chi ha attraversato la vita di don Luigi Ciotti. È la somma de «L’amore non basta» (Giunti, 324 pagine, 18 euro), libro scritto dal sacerdote antimafia, presentato ieri sera alle Serre Torrigiani.
Don Ciotti, intervistato dalla direttrice de La Nazione Agnese Pini, ha ripercorso la sua opera a servizio della legalità, per i diritti, l’accoglienza e la dignità delle persone. Alla presentazione anche l’assessore alla cultura di Palazzo Vecchio, Tommaso Sacchi, il vice sindaco, Cristina Giachi, Martino Montanarini ad Giunti e lo stesso Sergio Giunti.
Il volume non ripercorre solo i 55 anni del Gruppo Abele, fondato per dare anche agli ultimi una possibilità di risorgere, e i 25 anni di Libera, associazione nata per combattere la mafia. L’idea di don Ciotti è di parlare alle coscienze con la forza di un romanzo e con l’autorevolezza della verità.
Una autobiografia atipica. Perché per raccontare la sua vita, don Ciotti racconta le storie degli altri. Una vita fatta più di ‘noi’ che di io. Le storie di personaggi come don Tonino Bello, vicino all’idea di Chiesa in cui don Ciotti si riconosce, quella lontana dalle logiche di potere. E ancora Roberto Antiochia, agente di 23 anni ucciso dalla mafia, in quella Palermo dove lui stesso si era voluto trasferire per lavorare in prima linea contro la criminalità organizzata. Una vita basata su amore, empatia, giustizia.
«Il privilegio che ho avuto nella mia vita – ha detto don Ciotti – è stato poter sperimentare fin dall’infanzia povertà e dignità». Don Luigi Ciotti è un sacerdote che non si limita alla cura delle anime ma si batte per una maggiore giustizia sociale, per una società dove tutti, a partire dai più fragili, siano riconosciuti nella loro libertà e dignità. A partire dalla lotta alle mafie.
«Ci hanno rubato la parola legalità – ha detto don Ciotti – ci sono persone che la usano a sproposito. Una parola che è diventata un sedativo, un lasciapassare. Lo dico anche agli insegnanti: non fatene una bandiera. Legalità deve essere una parola viva. Sono 166 anni che parliamo di mafie, ma ancora saremo destinati a parlarne senza percorsi di inclusione. Percorsi che significano lavoro, cultura, scuola, politiche per la famiglia. Altrimenti non ne usciremo mai».