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Il centro per le donne infibulate: "Ci chiedono di tornare indietro"

Da novembre all’ospedale San Giovanni di Dio è attivo l’ambulatorio ginecologico transculturale. Un servizio di accoglienza e di cura dedicato alle vittime di mutilazione genitale femminile.

Mancava in città dal 2020, dalla chiusura dell’ambulatorio mutilazioni genitali di Careggi, una volta andato in pensione il direttore Omar Abdulcadir. Quell’eredità, non raccolta, è ora in mano del nuovo ambulatorio ginecologico transculturale dell’ospedale San Giovanni di Dio. Operativo da metà novembre, si rivolge alle donne vittime di mutilazione genitale femminile. Sono già tre le donne prese in carico: tutte dall’Africa, di 22, 30 e 45 anni. In due hanno chiesto di essere deinfibulate, la terza ci sta riflettendo. Una è ospite in un centro di accoglienza, un’altra vive qui con il marito. Era con lei quando ha deciso di rivolgersi al centro diretto dalla dottoressa Laura Falchi.

Dottoressa, come funziona l’ambulatorio?

"È stato attivato per venire incontro alle esigenze di una parte della popolazione, che da tempo ne avvertiva la mancanza. Dietro c’è una fitta rete di servizi e una presa in carico a tutto tondo. Si rivolgono a noi donne che hanno difficoltà collegate alla mutilazione. Le conseguenze sono varie: dolori, infezioni, ripercussioni sulle mestruazioni, sui rapporti sessuali, sulla gravidanza, ma anche sull’aspetto psicologico. Indirizzate da consultori, medici di famiglia o pronto soccorsi. Non tutte desiderano cambiare, alcune vogliono solo informarsi. La prima fase è la più delicata, perché dobbiamo capire la motivazione per cui la donna viene da noi. A quelle che chiedono l’intervento, dobbiamo spiegare il cambiamento cui vanno incontro, e non è scontato che lo accettino".

In cosa consiste l’intervento?

"Ci sono vari gradi di mutilazione: dai traumi minori, alcuni difficili da riconoscere, alla rimozione del clitoride e all’infibulazione, la più grave e più evidente. In questo caso si ripristina chirurgicamente la struttura anatomica".

Ci sono tante donne che vivono in Italia e che hanno subito questa pratica?

"Sono tante. La maggior parte viene dall’Africa, dove è una forma di rituale, per molti è un segno di appartenenza alla comunità. C’è una figura incaricata, solitamente donna. Lo fanno fin dalla tenera età o in fase puberale. La realtà è molto sommersa, soprattutto per quanto riguarda le bimbe nate in Italia".

In questo caso come ci si comporta?

"Il momento più critico per loro, di solito, è quando tornano nei loro paesi di origine, in vacanza. Il rischio di essere sottoposte a mutilazione genitale è alto. Per loro c’è un percorso parallelo, insieme ai punti nascita e ai pediatri. Gli operatori sono formati nel riconoscere le situazioni e seguire le loro assistite".

Teresa Scarcella