Georgofili, l’Accademia si rialzò. "La cicatrice sul muro per non dimenticare quel bombardamento"

Il racconto dell’architetto che curò il resta uro dei Georgofili feriti. "La parete ricostruita è arretrata di venti centimetri per rendere leggibile non soltanto agli addetti ai lavori i segni della tragedia"

Via dei Georgofili com'è oggi

Via dei Georgofili com'è oggi

Firenze, 24 maggio 2023 - Già a guardarla dall’esterno, da via Lambertesca, la Torre dei Pulci si ripresenta oggi più bella che mai, grazie ad un restauro fedele ed accurato che saggiamente non ha nascosto la cicatrice e consente una eloquente memoria del tragico evento". Sono le parole di Franco Scaramuzzi, allora presidente dei Georgofili, nel fascicolo che fu curato in occasione del completamento del restauro, onorato dalla visita del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’11 marzo del 1996. Appresi dell’atto terroristico la mattina del 27 maggio (1993) mentre facevo colazione in un hotel del lungomare di Napoli, dove mi ero recato per festeggiare la laurea honoris causa in Beni Culturali (la prima in Italia), conferita a Giuliano Gori dall’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa. Ripartii per Firenze, mettendomi a disposizione di Mario Lolli Ghetti e Paolo Mazzoni, allora titolari della soprintendenza e di Ernesto Reali, provveditore alle Opere Pubbliche. Abbracciando Scaramuzzi, che da quel momento, non avrebbe mai più lasciato, quasi giorno e notte, i lavori di riparazione di quella sua seconda casa.

Già, la casa di quell’Accademia, nata nel giugno 1753, sotto l’egida granducale, per opera dell’agronomo Ubaldo Montelatici, canonico di San Giovanni in Laterano, primo esempio in Europa di associazione di ingegni intesi al perfezionamento dell’agricoltura, sorta ufficialmente col fine di far continue e ben regolate esperienze, ed osservazioni, per condurre a perfezione l’arte tanto giovevole della Toscana coltivazione. Passando per varie sedi, finalmente, nel 1933, era stata consegnata all’allora presidente Arrigo Serpieri la sede degli “Uffizi Corti” e la torre dei Pulci, precedentemente di pertinenza dell’archivio di Stato.

Ma da dove cominciare di fronte a quella tragedia? Mancavano persino i rilievi architettonici di quella preziosa architettura e un po’ ci aiutarono quelli che si conservavano da vecchi esami di Restauro dei Monumenti dei corsi di Sanpaolesi nell’Istituto di via Micheli. Adriano Bartolozzi, conservatore della fototeca dello stesso istituto, ripescò altro materiale che integrammo con spericolati sopralluoghi sulle macerie, coordinati da mio figlio Federico. Il restauro si presentava palesemente difficile e delicato anche in punto di metodo. Il caso era assimilabile a un bombardamento: perduto l’intero corpo di fabbrica su via dei Georgofili (per un fronte di circa dieci metri), e altrettanto in profondità; perduta l’intera compagine statica, con le sue pareti portanti e i suoi orizzontamenti (solai e volte), così che già difficili si presentavano persino le opere di presidio.

L’Europa ha imparato a sue spese (e oggi vi si trova di nuovo in Ucraina) il prezzo di questa barbarie; e in genere, a Coventry, a Dresda come a Norimberga, al Ponte di Castelvecchio a Verona, e al nostro di Santa Trinita, si sa bene come in questi casi, per la ricostruzione, si fosse affermato il criterio del come era, dove era. Aiutato dalla Carta del Restauro 1972, non mi fu difficile seguire il precetto che indica: "nelle sostituzioni o reintegrazioni di paramenti murari appare preferibile operare lungo la periferia dell’integrazione con un chiaro e persistente segno continuo a testimonianza dei limiti dell’intervento".

Questo è stato il principio guida a cui si è ispirato il restauro dei Georgofili. Con qualcosa in più: l’estesa parete ricostruita (distrutta dalla bomba) è stata rimontata arretrata di circa 20 centimetri, per rendere ben leggibile la reintegrazione. Si è così convinti che il risultato sia leggibile non solo agli addetti ai lavori, ma ai cittadini tutti. Ai cittadini del mondo che, come concorsero ad esecrare l’attentato che costò vite umane e generale distruzione, torneranno ad onorare questa cicatrizzazione della ferita che ne vuol matericamente riassumere l’intera tragedia, non meno del monumento che oggi è ai suoi piedi. Una cicatrizzazione che serve a non dimenticare e che, con questa sua attuale connotazione, è già diventata segno indelebile, registrato nella cultura della conservazione e del restauro e nella storia civile dell’Europa del XX secolo. Per me, un’esperienza carica di entusiasmo, di collaborazione pluridisciplinare, di entusiasmo civile e sociale. Avvertivo quanto tutti, impegnati in quel lavoro, fossimo guidati da un fortissimo sentimento di rivincita civile, a dimostrare la volontà di opporsi al linguaggio della barbarie.

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