Incinta di un mese morta in ospedale, il marito: "Voglio la verità"

Aperta l'inchiesta sul decesso in ospedale

Barbara Squillace

Barbara Squillace

Empoli, 21 luglio 2018 - «Se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. Niente mi restituirà Barbara, ma voglio sapere cosa è successo». Marco Pistolesi non si dà pace. Non dorme da ore, ha il volto segnato dalle lacrime e dallo sgomento di doversi arrendere a un destino crudele. Alla morte a soli 42 anni dell’amata moglie Barbara Squillace, alla quarta settimana di gravidanza, in un letto dell’ospedale di Empoli dove era ricoverata da sei giorni per iperemesi gravidica. Un decesso, avvenuto giovedì mattina, le cui cause restano da chiarire. Non è bastato il riscontro diagnostico sulla salma ieri all’ospedale di Pistoia: gli accertamenti non hanno dato risposte, hanno aperto un nuovo inquietante scenario.

«L’anatomo patologo – spiega l’Asl Toscana centro – ha riscontrato elementi sospetti in ipotesi di condotte sanitarie incongrue e ha ritenuto di effettuare la segnalazione alla procura della Repubblica. L’autorità giudiziaria ha sequestrato la cartella clinica». Omicidio colposo, sarebbe questa l’ipotesi di reato scritta sul fascicolo aperto dalla Procura: l’autopsia sarà effettuata lunedì. Ieri la Asl ha informato la Regione dell’evoluzione della vicenda: l’assessore alla salute Stefania Saccardi ha attivato la commissione regionale del rischio clinico.

«Abbiamo già individuato un gruppo di esperti che il 26 luglio andrà, con il team del centro regionale rischio clinico, a fare un audit interno. Abbiamo intenzione di accertare in modo rigoroso quanto è successo», ha dichiarato Saccardi, esprimendo vicinanza alla famiglia di Barbara Squillace. Al marito, a mamma Grazia e alla sorella Debora. «Sono rimasto senza parole quando mi ha chiamato la direzione dell’Asl – racconta il marito di Barbara –. Mi hanno detto che è stata riscontrata un’occlusione intestinale, segno di una possibile negligenza. Sapere che forse Barbara si poteva salvare, mi tormenta». E’ un pensiero fisso. «L’unico rimpianto è di non aver battuto i pugni sul tavolo, di non aver preteso che la portassero in un altro reparto. Aveva l’addome gonfio, duro, lamentava continui dolori alla schiena e non riusciva ad andare in bagno. ‘Per stimolare l’intestino, deve camminare’, le dicevano. Ma non si reggeva in piedi: aveva perso quattro chili e ne pesava appena quaranta».

Eppure Barbara non mollava. «Pensava soltanto al piccolo che aveva in grembo – continua il marito – Dopo due tentativi di fecondazione assistita falliti, ce l’avevamo fatta. Diventare mamma era la sua ragione di vita». Marco si ferma, con la mente torna all’alba di giovedì: «Da quando era ricoverata, nonostante i forti dolori, i medici non le hanno fatto nessun accertamento all’addome. L’altra mattina, dopo una notte insonne di sofferenza, un’infermiera le aveva messo una nuova flebo. Erano le 6.45, poi se n’è andata. Barbara ha chiuso gli occhi. Ho visto che respirava, ho pensato stesse riposando perché stremata. Ma quando ho cercato di svegliarla in vista del giro di visite, non rispondeva più. Ho chiamato aiuto, sono arrivati i soccorsi e mi hanno fatto uscire. Ma la mia Barbara non si è più svegliata».