Il mafioso delle stragi del 1993 potrà avere il permesso premio

La Cassazione apre ai benefici per Giuseppe Barranca, all’ergastolo per gli attentati di Capaci e dei Georgofili

La strage dei Georgofili e, nel riquadro, Barranca

La strage dei Georgofili e, nel riquadro, Barranca

Firenze, 21 maggio 2022 - La valutazione sull’eventuale concessione di un permesso premio a un mafioso deve prescindere dal suo pentimento e deve invece concentrarsi sull’attualità o meno dei legami con la criminalità organizzata, sulla possibilità che il detenuto condannato per 416-bis possa riallacciarli e sul percorso che ha seguito in carcere. Sono le indicazioni perentorie che la Corte di Cassazione ha dato al Tribunale di Sorveglianza di Milano nell’annullare l’ordinanza che il 16 giugno 2021 ha negato per la seconda volta in un anno il beneficio a Giuseppe Barranca, 66 anni di cui gli ultimi 25 trascorsi dietro le sbarre (e fino al 2008 in regime di carcere duro al 41-bis), boss di Cosa Nostra che sta scontando nel penitenziario di Opera gli ergastoli per la strage di Capaci e per i raid dinamitardi del 1993 (dieci morti) di via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e via del Fauro a Roma (il fallito agguato al giornalista televisivo Maurizio Costanzo).

Indagini, processi e sentenze passate in giudicato hanno inserito Barranca tra coloro che pianificarono e misero in atto l’attentato (di cui lunedì si ricorderà il trentesimo anniversario) costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie magistrato Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: il palermitano di Brancaccio ebbe un ruolo-chiave nel reperimento dell’esplosivo piazzato sotto l’autostrada.

Dopo il primo stop al permesso premio da parte dei giudici milanesi, il 22 giugno 2020 la Suprema Corte aveva disposto un nuovo esame da parte del Tribunale di Sorveglianza, basando la sua decisione sul mutamento del quadro normativo generato dalla sentenza numero 253 del 2019 della Consulta. Una sentenza che ha dichiarato l’incompatibilità con i principi costituzionali dell’articolo 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevedeva che ai detenuti condannati per associazione mafiosa (e non reclusi al 41-bis) potessero essere concessi permessi premio "anche in assenza della collaborazione con la giustizia" e pur in presenza di "elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti". Una sentenza che ha cancellato il concetto di "presunzione assoluta di pericolosità", lesivo "dei principi di ragionevolezza e della finalità rieducativa della pena", e rimpiazzato il parametro del "silenzio non collaborante" con quello della "persistenza del vincolo criminale".

Una sentenza di cui, per la Suprema Corte, il Tribunale di Sorveglianza di Milano non avrebbe tenuto abbastanza conto, se è vero che il secondo no alla richiesta di Barranca avrebbe alla base "una motivazione dalla matrice spiccatamente eticizzante, che indulge in più punti a osservazioni ispirate da moralismi". Tradotto: pur sottolineando la condotta carceraria "ineccepibile" del condannato (niente rilievi disciplinari, formazione scolastica e disponibilità all’attività lavorativa) e citando la relazione datata 14 giugno 2021 in cui da Opera hanno fatto sapere che Barranca ha riconosciuto "i propri sbagli" e ha preso coscienza "del proprio passato criminale e dei reati gravissimi commessi", i giudici meneghini si sarebbero fermati "su posizioni di stigma della scelta di non collaborazione" e avrebbero orientato la loro decisione "su una valutazione “morale”" della "enorme sproporzione tra le condotte delittuose e l’appartenenza mafiosa ad altissimo livello, da un lato, e la ripresa di una vita corretta e coerente in carcere, dall’altro".