MARCO VICHI
Cultura e spettacoli

"L'ultimo sorso", una storia semplice. Quindi bellissima

"L'ultimo sorso. Vita di Celio", di Mauro Corona (Mondadori), recensito da Marco Vichi

Mauro Corona

Firenze, 10 dicembre 2020 - Un flusso di memoria che oscilla come un pendolo da un tempo all’altro, da un luogo all’altro, da un argomento all’altro, seguendo unicamente il percorso tortuoso ma deciso del ricordo, che si muove saltando come uno stambecco e spesso ci porta dove vuole lui. La memoria è anarchica, il pensiero è più veloce della luce, e a tentare di domare il ricordo ecco la parola scritta, anzi scolpita, di Mauro Corona, con la sua rovente passione di raccontare storie. Perché la letteratura non è altro che questo: raccontare una storia. Ma in queste tre semplici parole è racchiusa la naturale aspirazione dell’animo umano, che per seguir virtute e canoscenza è avida di storie.

Ai tempi di Omero i poeti cantavano le gesta degli eroi davanti al fuoco, ed era la stessa cosa. Ecco, Corona è un poeta che scrive in prosa. Parole che sembrano roccia, a volte scheggiata dalla picozza di un ricordo improvviso e doloroso, altre volte levigata dal fiume del tempo. Corona ci racconta la vita di un uomo, dall’inizio alla fine, dalla nascita alla disfatta, una storia immersa nello scenario dove è nato e cresciuto, la montagna, la roccia, il bosco. E il pendolo oscilla di continuo, scavalca il tempo, inseguito dalla parola, dalla quale scaturisce assai più di quel che sembra, assai più dei significati letterali, perché nella parola scritta resta impigliato il sentimento che ha guidato colui che ha scritto… è più facile nascondersi dietro un dito che dietro alla scrittura.

Nel grande flusso di questo racconto si mescolano con armonia il dolore, la pietas, la malinconia, la simpatia, il rispetto, l’ironia. Una storia semplice, per questo bellissima. Come dice Silone, quel che solo importa in letteratura sono le vicende della vita interiore dei personaggi, ed è proprio quello che accade in questo bellissimo romanzo. Corona non ci risparmia i difetti di colui che racconta, non fa di Celio, il protagonista di questa storia, una persona a metà, ma ne esce fuori un tutto tondo, una scultura. È così che si scrive, non diversamente. E se un sentimento “mitizzante” trapela tra le righe, in quel mito è compresa anche la parte peggiore, e comunque la memoria è di per sé mitopoietica, è nella sua natura, di mito abbiamo sempre bisogno.

Ovvio che la storia della stessa persona raccontata da un altro sarebbe diversa, ma è giusto che sia così: quando si racconta di qualcuno, inevitabilmente si racconta anche noi stessi, attraverso il nostro sguardo, i nostri sentimenti. E se raccontassimo la vita di qualcuno in epoche diverse, i libri sarebbero diversi. Corona ha scelto di raccontare adesso la vita di un uomo che ha lasciato questo mondo nel 1975, dunque dopo quarantacinque anni dalla sua morte. E un bravo scrittore sa quando è arrivato il momento di raccontare qualcosa, anche questo fa parte della coscienza e della maestria del cantastorie. Un magnifico libro che ci fa vivere sulla nostra pelle vicende lontane nel tempo e nello spazio. Il sottotitolo potrebbe essere l’antico adagio… “Non chiamare mai fortunato un uomo prima di averlo visto morire.” Dopo averlo letto, anche io conosco Celio.