Il ricordo del cronista: fumo, luci, scafi nella nebbia. E quel mozzo che gridava

I momenti più drammatici nel racconto del cronista de La Nazione: una lunga notte di dubbi e dolore

Moby Prince

Moby Prince

Livorno, 9 aprile 2021 - Me la ricordo bene quella sera. E come potrei dimenticarla? Ci vollero ore per capire la portata della tragedia. Perché all’inizio eravamo tutti proiettati sull’incendio della petroliera. "Bruciamo, ci ha colpito una bettolina, mayday, mayday " gridavano in radio dall’Agip Abruzzo. La nave era all’ancora in rada, un bestione per quei tempi. Era buio e s’intravedevano luci, fumo e poco più. In Capitaneria la radio gracchiava su quelle richieste dalla petroliera, l’operatore aveva avvertito l’ufficiale più alto in servizio, il comandante Cedro. Noi cronisti cercavamo di avere informazioni, Cedro era pallido, ricordo bene: le motovedette dovevano scaldare i motori.

«Una bettolina, ma che bettolina?" Ci chiedevamo. In attesa di notizie, ciascuno ipotizzava tesi di fantasia. Non c’erano i cellulari, ma dalla redazione di piazza Grande arrivava trafelato qualcuno in Vespa: "Firenze vuol sapere". Anche noi avremmo voluto sapere. Una baraonda. Arrivò da Viareggio come una furia il comandante della Capitaneria, l’ammiraglio Albanese. Vidi il sollievo in faccia al povero Cedro mentre Albanese cercava di capire. Nessuno – ricordo bene – collegò l’incendio al traghetto che era partito da Livorno una mezz’ora prima verso la Sardegna. Il mantra era la bettolina. Dal mare le prime barche accorse la cercavano, tra il fumo dell’incendio della petroliera e la nebbia. Finché emerse come uno spaventoso fantasma arroventato e fumante il Moby: lento, leggermente sbandato, navigava a marcia indietro lasciandosi verso prua una strisciata di volute oleose. Ci raccontarono poi i due barcaioli ormeggiatori che erano rimasti impietriti. Furono loro a salvare l’unico superstite, un mozzo. La storia è nota, i suoi dettagli però hanno subìto da allora incertezze, cambiamenti. Ma noi sapemmo solo allora, dalla radio degli ormeggiatori, del Moby e del mozzo che gridava disperato.

Ricordo il gelo in Capitaneria, la frenesia degli ordini, le radio, poi la confusione. I rimorchiatori del Neri erano già sotto la petroliera e l’annaffiavano di schiumogeni. Uno fu dirottato ad agganciare il relitto fantasma e fumante. Oggi posso dire che un cronista di "nera" – allora lo eravamo tutti all’occorrenza – anche nella peggior tragedia vede per prima cosa "la notizia". Ci scatenammo come avvoltoi, dovemmo anche lavorare di fantasia. Stravolti, come tutti, a chiederci perché. Il giorno dopo arrivarono i grandi inviati speciali, ma noi cronisti rimanemmo sul pezzo, a scavare, interrogare, anche – ebbene sì – inventare. Tante delle ipotesi sono diventate storia, ma non lo erano. Ricordo che scovai anche una dichiarazione secondo cui a prua del Moby ci sarebbero state cariche di tritolo nascoste da qualcuno che se ne serviva per la pesca di frodo in Sardegna. E poi la nebbia: c’era, non c’era…

Quando ci fu l’inchiesta – anzi le inchieste – della magistratura ma anche del comando generale delle Capitanerie, sia Albanese che Cedro furono crocifissi, ma sul ritardo dei soccorsi prevalse la tesi secondo cui sarebbero stati in ogni caso inutili perché a bordo erano tutti morti in poche decine di minuti. Qualcuno disse che l’esperto comandante del Moby, Ugo Chessa, morto nel rogo, forse s’era distratto. E finì lì. Sulla nebbia si scontrarono meteorologi, testimoni, sedicenti esperti. Per me la nebbia c’era stata: lo dissi ma finì lì. Non sono bastati trent’anni per chiarire se ci fosse stata o meno. Non ho altro da ricordare. Ho solo incubi, ogni tanto.