"Due anni in Uganda, volevo cambiare qualcosa"

La testimonianza di Enrico Tagliaferri, livornese infettivologo dell’ospedale di Cisanello. "Vedo la realtà con occhi diversi"

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Livorno, 7 novembre 2019 -  «Un’esperienza del genere aiuta molto, consente di vedere la realtà che ci sta intorno da un altro punto di vista». Enrico Tagliaferri, 46 anni, livornese, è un medico infettivologo dell’ospedale di Cisanello. Nel periodo conclusivo dei suoi studi universitari, 15 anni fa, decise di entrare a far parte di Medici con l’Africa Cuamm, l’organizzazione non governativa che ha l’obiettivo di migliorare lo stato di salute in Africa e promuovere un atteggiamento positivo e solidale nei confronti del continente stesso. Il lavoro svolto da Tagliaferri – intrapreso dopo un viaggio in Tanzania avvenuto pochi mesi prima – ha avuto come base Nebbi, un centro dell’Uganda nella regione settentrionale del West Nile. E’ proprio qui che ha vissuto dal 2005 al 2007 ed è qui che, all’epoca, decise di portare anche sua moglie e la loro bambina di pochi mesi.  

Come maturò la decisione di intraprendere un’esperienza del genere? «L’idea era nata molto prima, già durante l’età adolescenziale. Il progetto poi ha preso forma durante il corso di laurea in Medicina. Non è stata una spinta caratterizzata da motivi religiosi, avevo solo il forte desiderio di riuscire a far parte di un possibile cambiamento in meglio di questa società. L’esperienza in Uganda non mi ha tanto consentito di acquisire ulteriori nozioni professionali, quanto invece di poter vivere situazioni che mi hanno influenzato molto e hanno cambiato il modo generale di vedere le cose. Dandomi una proporzione giusta, a dispetto di quella un po’ distorta che invece abbiamo nella quotidianità».  

In che cosa consisteva il suo incarico a Nebbi? «Mi occupavo in particolar modo di sanità pubblica e di medicina sul territorio, era un lavoro di supervisione, formazione e coordinamento. Collaboravo con le istituzioni locali, facendo parte di una squadra governativa all’interno della quale c’erano un direttore, un responsabile per la tubercolosi e uno per la malaria. Ero una sorta di jolly».  

Quali furono le problematiche più concrete che incontrò? «La grande disparità tra i bisogni della gente e le risorse a disposizione. Non avevamo i mezzi adeguati a partire dal personale. Mancavano infermieri, laboristi, infrastrutture e farmaci. Sembrava di svuotare il mare con un cucchiaino».  

E l’accoglienza da parte della popolazione? «Il contesto era favorevole, la guerra non c’era e l’atmosfera è sempre stata cordiale. Certo, il ‘diverso’ suscita sempre un po’ di sorpresa, in alcune scuole dove c’erano bambini molto piccoli è capitato che scoppiassero a piangere perché non avevano mai visto un uomo bianco. Non c’è mai stata ostilità, solo tanta curiosità. Ricordo che avevamo una casa con una rete intorno, c’erano tanti ragazzini che si avvicinavano per cercare di vedere la nostra bambina piccola».  

Le giornate come erano strutturate? «Viaggiavamo spesso dalla mattina alla sera a bordo di una jeep lungo il Nilo, ma poteva anche capitare di restare chiusi in ufficio per riunioni importanti».  

Oggi in che cosa consiste la sua collaborazione con l’ong? «Tengo due o tre lezioni all’anno nell’ambit o di alcuni corsi che Medici con l’Africa organizza per coloro che sono interessati a fare esperienze del genere».  

Che cosa direbbe ad un giovane medico pronto a partire per l’Africa? «Gli direi che è un’esperienza utilissima sotto molto punti di vista. Oggi per certi versi è meno facile perché i finanziamenti scarseggiano. Però c’è sempre bisogno di andare, c’è la necessità di formare personale locale».  

L’Africa nel 2005 e l’Africa di oggi hanno gli stessi problemi? «Ci sono realtà e contesti molto diversi tra loro, a volte quello che è stato costruito in tanti anni viene spazzato via in un attimo da una guerriglia. I problemi sono le malattie infettive, i bassi tassi vaccinali e le questioni di salute materno-infantile. Ma anche i tumori, le malattie cardiovascolari, gli effetti dell’inquinamento e paradossalmente anche l’obesità e la diffusione del fumo».  

Tornerà in Africa? «Ci stiamo pensando, i figli sono grandi e con il lavoro non è semplice. Ma l’anno prossimo vorrei andare».  

Paolo Biagioni