Chiusi in casa per Coronavirus: "Troppa poca attenzione a danni psicologici e fragilità"

Costanza Rizzacasa d’Orsogna, autrice del romanzo “Non superare le dosi consigliate” (Guanda) fa il punto sulle difficoltà di chi ha affrontato il lockdown combattendo anche con i disturbi alimentari

Costanza Rizzacasa d’Orsogna, giornalista e scrittrice

Costanza Rizzacasa d’Orsogna, giornalista e scrittrice

Firenze, 9 maggio 2020 - Dietro le porte chiuse dal lockdown, c’è chi ha avuto una compagnia peggiore della solitudine. Sono le tante persone che, anche in Italia, hanno dovuto convivere con i disturbi alimentari: bulimia, anoressia o il meno noto binge eating, che porta a un’alimentazione incontrollata e a continue abbuffate. Per donne e uomini che, a causa di queste patologie, hanno una vera e propria ossessione per il cibo, vivere reclusi, dover concentrare continuamente l’attenzione sulla dispensa e sulla spesa da fare, rinunciare (soprattutto nel caso dei single) a pranzi e cene in compagnia, ha rappresentato un enorme ostacolo in più nei percorsi di guarigione e nei delicati equilibri per la gestione della quotidianità.

Ne abbiamo parlato con Costanza Rizzacasa d’Orsogna, giornalista e scrittrice. Laureata in scrittura creativa alla Columbia University di New York, ha appena pubblicato il romanzo “Non superare le dosi consigliate” (Guanda). Un’opera coraggiosa, cruda, a tratti spietata, in cui l’autrice affida alla protagonista, Matilde, tratti significativi del suo vissuto autobiografico. Fra questi, in primis, il difficile rapporto con il cibo, che la porta a cercare conforto nel pane che le «dà un senso di calma», a dipendere dai lassativi, a dimagrire, ingrassare e ancora ingrassare, arrivando fino a 130 chili, prima di trovare in se stessa la forza di perdonarsi, di accettarsi e di riprendere in mano la sua vita.

Partiamo dal lockdown: gli studi dicono che molte persone con disturbi alimentari hanno dovuto combattere una doppia battaglia. È così?

«Sì, soprattutto in Italia. Nel nostro Paese, per settimane, nessuno si è preoccupato degli effetti psicologici dei divieti sulle persone più fragili. Solo recentemente nelle task force è stato inserito uno psicologo. Eppure l’isolamento è il peggior nemico delle dipendenze e fra queste rientrano ovviamente anche quelle legate al cibo. La socialità aiuta a confrontarsi con l’altro, a distrarsi. Nella solitudine invece il cibo torna protagonista e, per chi ha disturbi alimentari, questa centralità rischia di far crescere l’ossessione. Va poi considerato che per uscire da queste malattie ci sono delle strategie, per esempio comprare solo il cibo strettamente necessario: con il lockdown tutti sono stati costretti a fare spesa per i giorni o le settimane a seguire, riempiendo le dispense. Anche i prodotti “safe” come frutta e verdura sono spesso passati in secondo piano, lasciando più spazio ai carboidrati, più facili da conservare. Insomma controllarsi e mantenersi in equilibrio è stato più difficile».

Che consigli può dare a chi è stato o si sente tuttora in difficoltà a causa delle misure legate al Coronavirus?

«Bisogna imparare a perdonarsi. Occorre andare avanti un giorno alla volta, senza sentirsi in colpa se le cose non si concretizzano esattamente come si era sperato. Meglio poi evitare di caricare i giorni, già pieni di stress, di troppi progetti, per poi sentirsi frustrati se questi non si realizzano. Un’altra strategia valida è cercare il confronto con gli altri, per esempio mantenendo il rapporto con medici, psicologi, gruppi di aiuto. Nelle zone più all’avanguardia d’Italia molti servizi sono stati trasferiti on line e sono stati organizzati anche pranzi e cene in compagnia, via webcam».

Nei suoi articoli e libri l’universo femminile è protagonista. Crede che le donne avrebbero potuto essere coinvolte di più nelle task-force e nella gestione dell’emergenza Coronavirus?

«Avrebbero potuto e soprattutto avrebbero dovuto essere coinvolte di più, visto che il mondo è per almeno metà composto da donne e che moltissime hanno competenze comprovate e specifiche proprio negli ambiti necessari. Quando l’opinione pubblica è insorta sul mancato coinvolgimento delle donne, mi ha colpito molto la replica del premier Conte che ha usato due parole: rivendicazione e protagonismo. Come se le donne volessero qualcosa in più del dovuto, come se essere coinvolte fosse una nostra richiesta velleitaria e non ci spettasse semplicemente di diritto». 

Veniamo alla sua opera: “Non superare le dosi consigliate” affronta il tema dei disturbi alimentari nella formula insolita del romanzo. Come mai questa scelta?

«È un romanzo con una struttura particolare, che si articola e si evolve intorno a un flusso di coscienza, con tanti flash nel passato. I legami con la mia esperienza autobiografica sono molti, ma se avessi scritto un memoire o un saggio sarebbe stata solo la “mia” storia. Invece ho creato una anti-eroina, Matilde, in cui ogni lettore può immedesimarsi. È una figura che ha tanti punti in comune con me, ma anche molte differenze: io sono riuscita a superare le difficoltà attraverso il lavoro e il mio ruolo di scrittrice e giornalista, usando lo studio e la ricerca. A Matilde non ho dato questi strumenti, lasciandola in una situazione ancora più difficile della mia».

L’opera ha un finale “in sospeso”. Nessun lieto fine?

«Il disturbo alimentare è quasi sempre qualcosa che ti accompagna per tutta la vita o comunque molto a lungo: anche se si guarisce poi ci sono dei trigger, dei segnali, a cui siamo più sensibili. Il romanzo finisce sospeso, a metà dell’accettazione di sé, perché nella realtà è proprio così che accade. Non è che a un certo punto va tutto bene, non esistono gli stereotipi dei film che ti ritraggono grasso-infelice all’inizio e magro-felice alla fine o al contrario, magro-infelice all’inizio e grasso-allegro alla fine. Sono tutte balle. La verità è che la gente tende a giudicarti e a criticarti sempre, a metterti in discussione: trovare un equilibrio, un modo per accettarsi, non è mai facile e non è mai definitivo».

Il romanzo descrive il rapporto complesso di Matilde con la madre, a sua volta bulimica, spesso durissima con la figlia. Eppure da parte della protagonista non c’è mai rabbia verso di lei…

«Il romanzo è anche all’insegna della rabbia, della determinazione. Perché la rabbia femminile, a lungo negata, è invece giusta… sana. Però il tono di Matilde non è rabbioso, soprattutto nei confronti della madre. Si rende conto che nessuno ti insegna a diventare genitore e che i suoi, che pure hanno commesso tanti errori, hanno comunque fatto del loro meglio. Matilde ripensa alla sua vita e sa che, per citare Manuel Vilas, “in tutto c’è stata bellezza”. La madre aveva profondi problemi psicologici che ha trasmesso ai suoi figli, ma ha comunque fatto del proprio meglio. Insieme al padre ha compiuto grandi sacrifici economici per i figli, per assicurare loro un futuro migliore».

La famiglia di Matilde, nel suo complesso, è il luogo in cui i problemi sembrano nascere, ma anche il costante punto di riferimento della protagonista. Qual è il ruolo dell’universo familiare nel romanzo?

«La famiglia, benché sgangherata e disfunzionale, resta sempre un punto di riferimento per Matilde che infatti la definisce bellissima. La sua infanzia è il periodo della vita a cui guarda ancora oggi con più nostalgia. Lei, che ha sempre fatto fatica a farsi accettare dagli altri, che ha dovuto spesso mentire e chiedere, a volte ‘elemosinare’ amore e attenzione, ha sperimentato nella famiglia il luogo comunque più accogliente, nonostante le difficoltà. Riprendendo le parole di Robert Lee Frost: “casa è il posto in cui, quando ci devi andare, ti devono accogliere”».