Almanacco del giorno: 1 dicembre 2019, primo caso Covid a Wuhan. È l’inizio della pandemia

“Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre – scrisse Camus - e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”

Covid, personale in azione

Covid, personale in azione

Firenze, 1 dicembre 2021 - “I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”. Nonostante Albert Camus ci avesse avvertito nel suo libro ‘La Peste’, siamo stati colpi di sorpresa.

Sembra passato un secolo, perché interminabile è sembrato questo tempo, soprattutto quello trascorso in lockdown. Invece sono trascorsi appena due anni esatti da quel primo dicembre 2019, quando, nella città cinese di Wuhan, nella provincia di Hubei, un uomo mostrava i sintomi di una polmonite anomala. Che soltanto il 24 gennaio 2020, sulla base di un’analisi retrospettiva, la rivista The Lancet individuava come il primo caso di una malattia che non aveva ancora un nome e per la quale non si riscontrava alcun legame epidemiologico.

Si trattava di una malattia sconosciuta, i cui primi casi sembravano legati al mercato di animali vivi della città. A infittire il mistero ci pensarono i documenti inediti ottenuti dalla Cnn, che ricostruirono discrepanze e omissioni nelle informazioni diffuse dalle autorità cinesi all’inizio di quella pandemia che, di lì a poco, avrebbe travolto il mondo. Mentre i casi si moltiplicavano, il primo a parlare apertamente di una nuova malattia era stato un giovane oftalmologo, Li Wenliang, il primo ad avvertire i colleghi della necessità di utilizzare protezioni, e per questo convocato dalla polizia. Morirà il 7 febbraio dopo avere contratto il virus.

In quei primi giorni di dicembre la città di Wuhan, dove in un mercato il nuovo virus aveva compiuto il salto di specie dall’animale all’uomo, contava già centinaia di casi e alcuni morti, mentre i media di Pechino parlavano di una “misteriosa polmonite”. Nonostante alla leadership cinese il rischio per la popolazione fosse già chiaro almeno dal 14 gennaio - come dimostrato da un’inchiesta dell’Ap, Associated Press - a Wuhan la vita continuò come nulla fosse per altri sei lunghi giorni prima che il presidente Xi Jinping decidesse di dare l’allerta, e altri tre per chiudere e isolare l’intera città dell’Hubei con i suoi 11 milioni di abitanti. A guardarlo con gli occhi di allora, il lockdown di Wuhan sembrò agli occidentali una risposta antidemocratica, possibile solo in un regime autoritario. Appena tre mesi dopo però, anche le città europee e americane le assomigliarono molto: strade deserte e saracinesche abbassate. Sui volti le stesse angosce e speranze. Tutti chiusi tra le mura domestiche e nascosti dietro le mascherine.

L’11 febbraio la malattia aveva il suo nome: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) decideva di chiamarla Covid-19, acronimo dall’inglese ‘Corona Virus Disease 2019’ . Quello che fino ad allora era stato un nuovo coronavirus, diventava così il virus SarsCoV2. Intanto a gennaio la Cina decideva di rendere pubbliche le sequenze genetiche del virus all’origine delle polmoniti: è stato un passo decisivo perché su quel materiale le grandi banche genetiche internazionali hanno fornito, e continuano a fornire, materiale a tutti i laboratori che nel mondo cercano di ottenere farmaci e vaccini. Ma se la condivisione dei dati genetici e di molte informazioni cliniche e scientifiche dalla Cina è stato un fatto positivo, i documenti della Cnn indicarono che non c’era stata invece chiarezza sui numeri di casi e vittime. Il 17 febbraio, ad esempio, le autorità cinesi comunicarono 93 casi, mentre dai documenti risultò che i casi erano 193. Ancora prima, all’inizio di dicembre, si registrò un’impennata del 20% di casi di influenza rispetto alla stessa settimana del 2018.

Da allora, in un mondo frenetico e globalizzato, ogni nuovo stop, blocco, lockdown è stata una necessità dolorosa. Si sono fermati i voli, si sono chiuse le frontiere, sono stati cancellati i principali eventi internazionali. Un mese dopo l’allarme di Xi, il 21 febbraio, il Covid aveva comunque raggiunto l’Italia, l’Europa e il resto del mondo. Si sono chiuse le scuole, poi via via i negozi, i bar, i ristoranti, gli uffici, le fabbriche. Si è fermato il calcio, le Olimpiadi di Tokyo sono state rinviate di un anno, si sono chiusi spiagge e musei, si sono spenti i cinema e la musica. Papa Francesco ha pregato da solo in una piazza San Pietro deserta, in quella che è diventata un’immagine simbolo del mondo sconvolto dalla pandemia. In molti l’hanno paragonata a una guerra contro un nemico invisibile. Ma, guerra o no, la vita è cambiata per tutti: lavoro, scuola, cultura, affetti hanno viaggiato sulla rete, nelle chat, per telefono. La musica ha viaggiato persino sui balconi. Per molte persone e intere famiglie, i solchi delle disuguaglianze sono diventati ancora più profondi.

La speranza si è aggrappata alla scienza, alla scoperta di una terapia, alla ricerca di un vaccino. Accanto al dolore e alla paura, cominciava anche ad insinuarsi l’impazienza di tornare a una nuova normalità, in un mondo cambiato. Ancora oggi, la fine dell’emergenza pandemica è un traguardo che non è stato ancora raggiunto. Ogni giorno si continuano a piangere vittime in tutto il mondo e si contano tanti, troppi nuovi contagi.  In questi due anni la ricerca ha subito un’accelerazione senza precedenti, così come la corsa al vaccino. Il virus intanto ha cambiato il nostro modo di vivere. E questo anniversario potrebbe essere l’occasione per riflettere su quanto resti importante continuare a utilizzare le tre misure fondamentali della prevenzione: indossare la mascherina, lavare spesso le mani e mantenere una distanza di sicurezza. Per evitare che, in futuro, una nuova pestilenza torni a cogliere gli uomini nuovamente impreparati.

Nasce oggi

Daniel Pennac nato il 1 dicembre 1944 a Casablanca, Marocco. Scrittore francese. Ha detto: “Quel che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara. Ed è a una persona cara che subito ne parleremo. Forse proprio perché la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l’invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo abitati da libri e da amici”.