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Albertosi: "Segnò Muller, offesi Rivera e lui mi disse: 'Non mi resta che far gol'"

Il portiere dell'Italia fu trafitto da due gol macchiati dal "fuoco amico" delle papere di Poletti e del Golden boy. Che si riscatterà subito

Enrico Albertosi in uscita alta durante Italia-Germania 4-3 del 1970

Firenze 16 giugno 2020 - Albertosi, nei supplementari con la Germania lei subì due gol frutto di 'fuoco amico'. 

(sorride) "Vero. Due reti in cui il comportamento della nostra difesa incise addirittura più dei meriti di Muller, a cui i tabellini assegnano i gol".

Come andò?

Sul primo gol Poletti, che aveva appena sostituito Rosato, stoppò il pallone che veniva verso di me. Lui mi urla 'esci', ma la regola era che stava a me chiamare palla e se non lo facevo, il difensore doveva spazzare. E dire che Poletti mi conosceva benissimo, fino all'anno prima era stato al Cagliari, insieme a me".

E intanto?

"Intanto, Müller mise il piedino, toccò appena e la palla rotolava lentamente in porta. Io, da terra, sarei riuscito a prenderla, con gesto forse più da nuotatore che da portiere, se Poletti non mi fosse franato addosso".

Un disastro. Ma ci fu modo di far peggio.

"Già. Sul 3 a 2 per noi su calcio d'angolo Rivera va sul palo. Non mi dava sicurezza. Lì volevo un difensore non un uomo d'attacco: sulla torre di Seeler, sfiorata da Müller un difensore sarebbe intervenuto a rinviare di brutto. Rivera invece giudicò fuori la palla, voleva accompagnarla sul fondo. E invece la palla entrò".

E Rivera abbracciò il palo.

"E io gliene dicevo di tutte. Lo offendevo a morte, arrabbiatissimo. Lui sussurra: ora non mi resta che andare a far gol. Sulla prima azione Facchetti dà a Boninsegna che mette in mezzo e Rivera spiazza Maier con la famosa finta".

È stata la partita più bella della sua vita?

"E' sicuramente fra i ricordi migliori. Anche se per 90 minuti fu di una bruttezza rara e nei supplementari un fuoco d'artificio dietro l'altro. il bello è che non ci accorgemmo subito di ciò che avevamo compiuto".

Quando ci riusciste?

"All'arrivo dei giornali e dalle immagini tv dell'Italia impazzita a fare il bagno nelle fontane. Le macchine imbandierate, i cortei".

Vi sentiste appagati e col Brasile crollaste in finale.

"Macché appagati. Il tifo degli italiani era una carica in più. Col Brasile, fino al 70' stavamo 1-1 e le migliori occasioni le avemmo noi. Poi, il gol di Gerson con quel tiro fortissimo ci tagliò le gambe e cominciarono a farsi sentire le fatiche di Italia-Germania".

Magari, con Rivera in campo prima dei famigerati, ultimi sei minuti...

"La staffetta era un accordo fra Mazzola, Rivera e Valcareggi. Titolare era Rivera che all'arrivo in Messico non stava bene, quindi partì Mazzola nelle prime tre gare. Rivera entrò nella ripresa col Messico, segnò e fece segnare Riva, idem con la Germania. La rivalità c'era. Ma erano due campioni".

Nonostante quei due campioni a Milano, nel '70 lo scudetto andò a voi del Cagliari. L'anno prima fu della Fiorentina. Una follia, immaginarlo oggi.

"La Fiorentina aveva già vinto uno scudetto e potrebbe tornare a farlo in futuro. Ciò che non succederà mai più è il Cagliari campione".

Perché?

"Cagliari è un'isola. Lontana da tutto. Certe cose succedono una volta nella storia. Poco fa lei mi ha chiesto se Italia-Germania fosse il più bel ricordo che abbia del calcio e le ho detto che è uno dei più belli".

Lo scudetto col Cagliari è superiore?

"Di finali mondiali l'Italia ne ha giocate altre. Ma lo scudetto a Cagliari è una cosa unica. Certo in quel 1970 divento campione d'Italia col Cagliari poi gioco nel 4-3 alla Germania e arrivo secondo al mondiale: non mancarono le emozioni"

Oggi, è più legato ai compagni di quel Cagliari o di quella Nazionale?

"Con quelli del Cagliari ci sentiamo tutte le settimane. Specie con Tomasini, Poli, Brugnera. Ma tutti, siamo ancora profondamente legati. Perché vincere là non è un'impresa di calcio. È un pezzo di vita da cui non ti stacchi più".

Piero Ceccatelli