La proposta di sostituzione onomastica della parola “Natale” con “festa d’inverno” comporterebbe anche alcune problematiche concrete su cui sarebbe opportuno richiamare l’attenzione, evidenziando in primis - per quanto possa essere sgradevole - un dato di fatto oggettivo. Iniziamo da una domanda: quali sono, nella realtà sociale che ci circonda, i fedeli di religioni non cristiane che possono provare un sentimento di disagio di fronte alla rappresentazione verbale, o visiva, dei simboli di una religione diversa dalla propria? Chiunque abbia frequentazioni “multietniche” nel nostro contesto regionale sa per certo che un sentimento del genere non è minimamente presente né tra i cinesi confuciani, né tra i buddhisti e gli induisti. Parlando nel campo delle ipotesi, questo sentimento potrebbe presentarsi tra gli islamici. Ma anche in questo caso l’esperienza diretta non ne dà riscontro esplicito. E’ pur vero che nella precettistica islamica esiste una regola - chiamata taqqyia (o kitman) - che rende lecita e doverosa la dissimulazione della propria fede e la simulazione di un atteggiamento condiscendente verso le altre fedi quando il credente si trovi in un contesto potenzialmente ostile, nel quale l’Islam è minoritario e debole. Ciononostante, appare altamente improbabile che questo comportamento riguardi una frazione consistente dei musulmani presenti nel nostro Paese. . Secondo i modelli culturali di percezione e valutazione che lo caratterizzano, la nostra “autorinuncia” a chiamare il Natale con il proprio nome verrebbe interpretata come una manifestazione di debolezza e una disponibilità a sottometterci. Su questa materia, non si spiega il deficit di consapevolezza da parte di intellettuali di alto profilo – come quei docenti dell’Università Europea che hanno proposto la cancellazione della parola “Natale” - se non facendo riferimento a un pregiudizio conformistico, del tutto ingiustificabile nel loro caso. Gabriele Ciampi
già professore UniFi