MARCO
Cosa Fare

Corsi all’ospedale da mio padre Era vivo, ma in un corridoio di morti

Sembrava una bestemmia del destino: aveva superato due guerre ma era stato investito da un’auto

Marco

Vichi

Era l’autunno del ’63. Mi chiamarono i carabinieri per dirmi che mio padre era stato investito da una macchina. Due imbecilli che facevano a gara, il primo aveva frenato e l’altro lo aveva tamponato a velocità folle, spingendo la macchina davanti addosso a mio padre, facendolo volare in aria per una ventina di metri. Morire in quel modo a più di settant’anni, dopo essere sopravvissuto a due guerre, era una bestemmia del destino. Andai di corsa all’ospedale, e dopo aver cercato a lungo trovai in un corridoio, insieme ad altri morti, il cadavere del babbo… che però respirava ancora. Era vivo, lo capii avvicinando l’orologio alle sue labbra e vedendo che il vetro si appannava. Sicuramente non ce l’avrebbe fatta, ma meritava almeno un po’ di rispetto. Cercai di stare calmo. Agguantai un’infermiera e le dissi di chiamare il primario. Non dovevo avere una bella faccia, perché lei se ne andò agitando le mani. Ma dopo un po’ arrivò un medico. Gli feci notare che mio padre non era ancora morto. Lui si scusò infinitamente, disse che non era stato lui a metterlo tra i morti, e fece portare subito mio padre in una stanza singola.

Mia mamma e io ci davamo il cambio per stargli vicino, rimanevamo con lui per molte ore al giorno, seduti accanto al letto, per non lasciarlo mai da solo. Era desolante vedere quegli occhi semi aperti e senza luce. Ogni tanto gli prendevo la mano, e qualche volta sentivo che me la stringeva. Speravo che percepisse la mia presenza, e mi capitava di sussurrargli qualcosa. Ma lui non aveva alcuna reazione. Morì dopo quattro giorni, per me lunghissimi. Con il cuore piccolo come un cece mi occupai delle pratiche burocratiche. Lo accompagnai al cimitero, gettai la prima zolla di terra sulla bara insieme alla mamma, poi ce ne andammo abbracciati. Nel vuoto dei giorni successivi detti un’occhiata alle sue carte, documenti, appunti, foglietti di ogni tipo. Scoprii delle cambiali per pagare una pelliccia di ermellino, che sicuramente non aveva comprato per la mamma. Lo rimproverai con un sorriso, come si fa con i morti. Non mi misi a indagare, e decisi di pagare le cambiali senza dire nulla a nessuno. In questo clima di sconforto, uno dei giorni successivi, una domenica, sentii suonare il campanello.

Sbirciai dalla finestra, e dietro il cancello del giardino vidi un ometto pelato dall’aria dimessa. Uscii dal portone e scesi le scale.

“Buongiorno.”

“Deve scusarmi, mi dispiace venire a disturbarla in un momento come questo.”

“Prego, mi dica.”

“Ecco, mi chiamo Rossi, non so se suo padre le aveva detto qualcosa…”

“In merito a cosa?”

“Be’, qualche mese fa avevo venduto un quadro a suo padre, e doveva ancora pagarmelo… Ho la ricevuta, guardi…” Mi passò la foto del quadro e un contratto di vendita semplice e chiaro. Novantacinquemila lire. Il quadro lo avevo visto a casa del babbo, e la firma era senz’altro la sua. “Mi aspetti un minuto, vado a prendere il libretto degli assegni.”

“Faccia con comodo…” disse lui con un sorriso. Era molto gentile e rispettoso. Tornai in casa e andai dritto nel mio studio, per cercare un foglietto che mi era passato tra le mani in quei giorni mentre guardavo fra le cose di mio padre. Non ci misi molto a trovarlo… “Ricevo la somma di lire 95.000 a saldo del dipinto di

tal dei tali raffigurante questo e quello…”, firmato proprio da Rossi, l’ometto gentile e rispettoso che mi stava aspettando in giardino. Tornai da lui sorridendo. Anche lui stava sorridendo.

“Ho trovato questo” dissi, mettendogli davanti alla faccia la ricevuta del pagamento.

“Ah…” Era assai sorpreso.

“Come la mettiamo, signor Rossi?”

“Ecco…” Era bianco come la mia camicia.

“Come la mettiamo?” ripetei.

“Oddio… è vero… mi scusi infinitamente, mi ero proprio dimenticato…”

“Adesso posso darle io qualcosa che non potrà dimenticare” dissi, e gli mollai un ceffone che gli ribaltò la faccia. Mi guardò con paura e un attimo dopo se ne andò a passo svelto. Davanti ai miei occhi apparve il viso di mio padre che sorrideva… “Ci sono individui che in casa non hanno lo specchio” mi diceva sempre il

babbo, “perché sennò sarebbe ricoperto di sputi.”