
di Salvatore Mannino
Sbiaditi come una pagina consumata dal tempo o come un atleta consumato dalla fatica. Non è stato l’Arezzo più brutto della stagione, primato che appartiene alle due sconfitte a valanga col Padova e il Sud Tirol, ma sicuramente è stato il più fievole, come venisse dal girone degli ignavi dantesco: nè carne nè pesce, l’equilibrio delle impotenze dell’Italia del Guicciardini. Fra le due paure sul fondo della classifica, quella del Cavallino e la parallela della Fermana, vince il timore di osare, l’impossibilità di rischiare, il punticino che non fa male a nessuno ma non risolve nemmeno i problemi di nessuno. Anzi, davanti a una platea che si allarga fino alla Pay-per-view di Sky, mette a nudo i vizi e i difetti di derelitte che si affrontano col fiatone.
Verrebbe da dire, sempre con Dante, non giudicar di loro ma guarda e passa. Ma, ahinoi, compito del cronista è scrivere comunque, analizzare anche dove si vorrebbe guardare altrove. Va detto allora che in dieci giorni gli amaranto hanno fatto giganteschi passi all’indietro, come il gambero. Dov’è la squadra che aveva sorpreso tutti a Imola, compresi i padroni di casa, vincendo e convincendo, come si dice col più classico dei luoghi comuni? Dov’è il gioco alla mano che era stato l’elemento centrale di quel colpo in trasferta, primi tre punti di stagione? Ma dov’è anche l’Arezzo che aveva ribattuto colpo su colpo, una settimana fa, di fronte alla Samb (di certo non inferiore alla povera Fermana che ha il peggiore attacco del campionato e si vede) cedendo nel finale solo all’ennesimo buco di una difesa eternamente distratta?
L’impressione è che questa squadra soffra del male solito cui soccombono tutti quelli costretti a un tour de force: arrivare stremati alla meta. Giocare la domenica e il mercoledì, come fossimo in Champions, è prerogativa delle grandi con la panchina lunga. Quella amaranto lo è abbastanza, ma la qualità non è la stessa per tutti. Specie se ci si mette la stanchezza di quattro partite ravvicinate e un manipolo di calciatori ancora stremati dai postumi del Covid di massa che ha decimato il gruppo.
Non si spiega altrimenti una squadra lunga e sfilacciata, mai padrona della partita, con un centrocampo che in novanta minuti non è riuscita a imbastire una sola giocata degna di questo nome, con due punte che poche palle hanno ricevuto anche perchè poco si sono fatte vedere. Pesenti e Cerci sono in ritardo evidente di condizione, mentre Di Paolantonio e Arini paiono provati e non riescono a tenere in mano il timone. La difesa non fatica più di tanto per l’inconsistenza degli attacchi fermani, ma all’ultima azione rischia l’osso del collo sull’unica palla decente messa in area.
Aggiungeteci la paura e avrete il quadro. Già, perchè la raffica di cazzottoni di domenica pesa ancora, riduce l’autostima, frena le invenzioni, induce tutti a non osare. Ne esce una partita insipida come una minestrina da ospedale. Che però fa bene come una minestrina da ospedale. Nel senso che anche un punticino fa comodo dopo due sconfitte. Peccato, perchè si poteva osare, e ottenere, di più, visto l’avversario. Ma meglio qualcosa di niente: non lo diceva anche Catalano, ovvero il maestro dell’ovvio targato Arbore?