
Andrea Lorentini con Carlo Tavecchio, ex presidente Figc, e la maglia 39 dell’Italia
"Un ricordo di mio padre? Purtroppo non ne ho". Non ha fatto in tempo a conoscerlo, Andrea Lorentini, il nostro Andrea Lorentini. Da qualche anno fa parte della nostra squadra: è la prima firma de La Nazione per il calcio amaranto ma è anche il presidente dell’Associazione Familiari Vittime dell’Heysel, ruolo ereditato dal nonno Otello che lo ha cresciuto come un padre, visto che Roberto è stato ucciso nella notte criminale del 1985, quando Andrea aveva da poco compiuto tre anni.
Cosa significa, a quarant’anni di distanza, ricordare ancora quella tragedia?
"Preferisco parlare di strage, non di tragedia. Non è accaduto per caso, ma a causa di negligenze e errori nella gestione dell’evento. Quarant’anni dopo, sento ancora un forte senso di ingiustizia e rabbia".
Qual è il primo ricordo che ti torna in mente ogni anno in prossimità dell’anniversario?
"Il pensiero va a mio padre e a mio nonno Otello, che ha dedicato la sua vita a tenere viva la memoria e a promuovere un messaggio di non violenza. C’è sempre quel senso di ingiustizia e malinconia, la difficoltà ad accettare una morte così assurda".
Come è cambiato il tuo modo di vivere questo dolore?
"All’inizio, vedendo mio nonno e il suo impegno, ho imparato a non chiudermi, ma a portare avanti il suo lavoro. Quando parlo di queste cose, sento ancora un’emozione forte, ma cerco di andare oltre, perché questa storia deve essere conosciuta. Dimenticare sarebbe come uccidere quelle persone una seconda volta. Mio padre è stato mandato a morire, in uno stadio dove non c’era ordine pubblico né sicurezza, nonostante si sapesse chi erano gli hooligans inglesi".
Mi racconti un momento particolarmente intenso che ha vissuto, come presidente dell’associazione, nelle varie iniziative di questi anni?
"Un incontro con dei bambini delle elementari mi ha colpito molto. Uno di loro, alla fine, si è messo a piangere ed è venuto ad abbracciarmi per consolarmi. Era dispiaciuto per me e per la storia che gli avevo raccontato. Un altro momento intenso è stato nel 2015, quando abbiamo ritirato simbolicamente la maglia numero 39 della Nazionale allo stadio Heysel, durante un’amichevole tra Belgio e Italia. Tornare lì, nello stesso orario della strage, è stato molto toccante".
Tuo padre era riuscito a salvarsi ma poi, da medico, si è fermato per aiutare un bambino in difficoltà, pagando con la vita. Come vivi questo esempio?
"È un motivo di grande orgoglio. Il suo gesto è un esempio per tutti, un gesto di umanità in un momento di violenza. Ha sfidato il male per aiutare gli altri, rischiando la propria vita. È un esempio di comportamento positivo, soprattutto per i più giovani".
Come hai vissuto il fatto che negli anni successivi alla tragedia si tendesse a nasconderla, a considerarla un incidente e non una strage?
"C’è stata una censura collettiva, un deficit di memoria. Le responsabilità erano di enti importanti come la Uefa e il governo belga, quindi meno se ne parlava e meno emergevano queste responsabilità. Solo negli ultimi anni qualcosa è cambiato, anche da parte della Juventus".
Si può ancora amare il calcio dopo un trauma del genere?
"Mio nonno è stato molto bravo a educarci al valore dello sport. Non ci ha mai detto che il calcio è morto, perché quello che è accaduto all’Heysel non ha niente a che vedere con lo sport. Siamo cresciuti con l’importanza di fare sport, e io stesso sono diventato giornalista sportivo. Ringrazio mio nonno per non averci posto nessun vincolo, perché lo sport mi ha dato tanto".
f.d’a.