Le "trincee" degli Stolen Apple

La rock band fiorentina presenta il suo album in tour

La copertina di "Trenches" degli Stolen Apple

La copertina di "Trenches" degli Stolen Apple

Firenze, 15 dicembre 2017 - Le “Trincee” (albume 'Trenches') del gruppo fiorentino Stolen Apple sono scavate sulle frontiere in cui si sono sedimentate le tendenze musicali occidentali sviluppatesi dalla seconda metà degli anni Sessanta fino agli anni Novanta inclusi. Il lavoro di scavo musicale e di ricomposizione degli Stole Apple – che stanno eseguendo diversi concerti per proporre il loro album - assume Dylan e i Doors, ma anche la chitarra suonata alla maniera di Bernard Sumner dei Joy Division, tanto per esplicitare due stili e tonalità (proprio nel senso del colore) che, in qualche modo, sono assunti anche nei testi, scritti a otto mani, da Riccardo Dugini (voce principale e chitarre), Luca Petrarchi (voce, chitarre, mellotron, organo e synth), Massimiliano Zatini (voce, basso e armonica), Alessandro Pagani (voce, batteria, piano e percussioni). Su di essi – ci sembra – si sente l'impronta di Pagani, da non poco tempo cesellatore nell'arte della versificazione. Quelle cantate dagli 'Stolen Apple' sono giornate di pioggia in quartieri periferici, inizi di giornata che sentono ancora la freschezza dell'alba o la chiusura del giorno in una penombra talvolta tediosa e qualche volta più simile alla coperta in cui si avvolge nel tardo pomeriggio, a serrande un po' abbassate. Si cammina lungo i binari di piccole stazioni ai margini della città e si colgono i fiori che resistono in questo paesaggio. Cambiano i protagonisti delle canzoni, non sono molti ma non sono gli stessi. C'è chi sogna che era felice (traduciamo liberamente dall'inglese dei dodici testi) e guarda i camion sulle arterie stradali che lambiscono le aree industiali; c'è chi contempla la palude in cui sono caduti i suoi pensieri ma non vuole più rimpiangere la città che ha lasciato. L'abbandono degli amici ha il controcanto degli usignoli, la malinconia è sulla punta di un dito che cerca un buco nella parete della stanza di chi canta (o è cantato). Si contrappongono luce e nebbia, sole e rumore (l'espressione non rende bene come il sibilante “noise” del testo originale). Gli scenari esplorati dal gruppo sono compresi in una geografia di campi di pietra, quartieri lontani e stanze d'albergo a cui si approda al crepuscolo, ma da qualche parte c'è una pianta (“l'amore è una pianta”) che aspetta e può ancora crescere. Qualcuno esce finalmente dalla trincea e dice a chi ascolta: “Potrei restare a lungo a fissa il sole”. Ai cori: M.d.g. e Alessandra Pichi.

è arrivata su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro