Gaber, il paroliere Sandro Luporini: “Il mio amico Giorgio, un piccolo borghese dal grande cuore d’oro"

Il viareggino:"C’incontrammo per caso al Bar Sempione in via Procaccini a Milano. Da quel momento è iniziata un’amicizia e una stagione irripetibile"

Giorgio Gaber e Sandro Luporini poco prima di uno spettacolo a teatro

Giorgio Gaber e Sandro Luporini poco prima di uno spettacolo a teatro

Viareggio, 14 luglio 2023 – Sandro Luporini ha festeggiato 93 anni mercoledì scorso con un pranzo al mare. Con gli amici di sempre. Luporini, infatti, è nato il 12 luglio 1930 a Viareggio. Qui vi proponiamo un’intervista realizzata per il “Caffé“ in occasione della mostra alla Gamc. 

Capitò a Livorno dopo una serata (manco a dirlo) a teatro. Lungo la strada che portava al ristorante. Forse uno degli organizzatori dello spettacolo, sicuramente un portuale, non avendolo riconosciuto gli chiese: "Ma te chi sei?". E lui, avvolto in una voluta di fumo, bofonchiò con la sigaretta serrata tra le labbra: "Sono Sandro, Sandro Luporini".

Il camallo, quasi trasalì: "Sei Sandro Luporini?". "Sì, perché?". "Ma lo sai che te... sei tanta roba?". E lo è, davvero.

A 93 anni (li ha festeggiati mercoledì con gli amici in riva al mare) si è ritirato nella sua casa al Terminetto. Mentre sali le scale o esci dall’ascensore ti sembra di essere entrato in un labirinto. Le porte si nascondono dietro a brevi corridoi di cemento armato e vetro. Quando Azem, il suo collaboratore ucraino, apre la porta dell’appartamento lui è seduto in poltrona con la sigaretta accesa in mano. E ne fuma una dietro l’altra. "Ho iniziato da ragazzino, con Giorgio ne bruciavo due pacchetti al giorno", ci dice serafico. E, così, continua. Senza sosta. Per tutto il tempo che parliamo. E visto che ci siamo partiamo da lì. Da quando proprio per il fumo finì di fare il cestista.

"Giocavo a pallacanestro, per questo dopo aver lasciato la facoltà di Ingegneria a Pisa, riuscii ad andare prima a Roma e poi a Milano".

I libri non facevano per lei?

"Più che i libri, ne ho letti sempre tanti, tutti quei calcoli di alta matematica. Presi diciotto e capii che volevo fare il pittore".

Ma non giocava a basket?

"Sì. Ma la mia passione era dipingere. Per questo quando mi chiamarono a Roma andai. Ma il mondo culturale della capitale era tutta basata sur cinema (dice proprio così, ndr )".

Quindi?

"Me ne andai a Milano, che è sempre stata la città più Europea d’Italia".

Perché?

"Milano è da sempre una città molto accogliente. Non perché i milanesi siano generosi, ma prendono tutto ciò che è interessante, da ovunque venga".

E chi erano i suoi amici sotto la Madonnina?

"Giuseppe Martinelli, viareggino come me, Giuseppe Banchieri e Giuseppe Guerreschi. Ma, a parte questi ultimi due, di milanesi veri nel nostro gruppo non ce n’erano molti".

E Giorgio Gaber come lo conobbe?

"Abitava vicino a casa mia. Ci incontrammo al bar Sempione in via Procaccini. Accadde per caso. E ci siamo raccontati. Siamo diventati subito amici. Poi dopo un po’ mi chiese se lo aiutavo a buttar giù qualcosa".

Da pittore a paroliere?

"(Sorride, mentre fa uscire ancora un anello di fumo, ndr ). In realtà mi sentivo e mi sento ancora oggi più pittore che paroliere".

Però in molti dicono che è lei il vero Signor G., anzi il Signor L.?

"La verità è che i primi esperimenti con Gaber non avevano grande successo. Quello è arrivato dopo con il teatro. Non abbiamo una canzone di grandissimo successo. Ecco, senza il palcoscenico non eravamo nessuno. E quello lo riempiva Giorgio, non io".

Com’era Gaber?

"Un piccolo borghese assetato di novità. Un lavoratore instancabile, uno che si interessava tantissimo ai problemi. Ci si confrontava a giornate intere. Ascoltava tutto, leggeva tutto. Era un curioso seriale".

Era generoso?

"Sì, dava tutto se stesso. Si dava per cercare di capire".

Oggi cosa vorrebbe scrivere?

"Poco. Dal punto di vista della critica sociale, mi sembra di essere in un momento in cui non meriti un gran che. Siamo ad un livello molto basso. Ci sono stati dei momenti, tipo il ’68 in cui c’era un fermento notevole. Tutti cercavano di inventare cose nuove. Poi, negli anni Ottanta, si è ristagnato un po’ tutto".

A un giovane cosa suggerirebbe?

"Non mi sento all’altezza di dare buoni consigli. Però gli direi di avere una vigilanza maggiore rispetto a certe ingiustizie sociali".

Qual è la più grande ingiustizia?

"Un tempo pensavo che fosse il capitalismo del gran consumo la più grande tragedia. E che provocasse pochi ricchi e grandissimi poveri. Invece, tutto questo ha portato a quella massificazione come la chiamava Theodor Adorno o all’uomo a dimensione unica come l’ha ben definita da Herbert Marcuse".

Dipinge ancora?

"Ho smesso da qualche anno. Anzi, preferisco dire ho terminato: ovvero sono arrivato ad un punto in cui quello che potevo dare l’ho dato. La parola smesso, mi sembra una resa".

Il Comune ha acquisito le sue opere per esporle in maniera permanente alla Gamc?

"Sono rimasto fedele al realismo esistenziale così faccio quello che vedo. Le marine. Innanzitutto".

Va sempre sulla spiaggia?

"Qualche volta. Mi piace molto. Ma sono di una pigrizia incredibile. Sto sempre in casa. Più che altro sdraiato a letto".

A meno che non giochi a dama con Azem. "A scacchi no, – puntualizza congedandoci – lui è più bravo". E si riaccende un’altra sigaretta. La nona da quando mi sono accomodato sulla sedia davanti alla sua poltrona.