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Balducci, il pistoiese che battè Federer e che oggi dà lezione di sport

La storia di Daniele che agli sgoccioli della carriera superò l'allora 16enne svizzero, poi divenuto un campionissimo. Le sue parole da mandare a memoria da ogni giovane

Il monsummanese Daniele Balducci, deus ex machina del TC Sporting Club Montecatini, oggi

Montecatini Terme (Pistoia), 20 marzo 2021 - Ci sono storie che, di tanto in tanto, tornano alla mente. Storie piacevoli, che profumano di passato, di un passato ingentilito dalla gioventù. “I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume”. Così, Ennio Flaiano. Tra questi, il monsummanese Daniele Balducci, ieri apprezzato tennista oggi direttore tecnico del Tennis Club Sporting Club Montecatini, inserisce la vittoria sul 16enne Federer, in Svizzera nel ’97. Anche se non è solito vantarsene. “Piuttosto sono gli altri a rammentarmelo – sostiene –, che sia il giornalista di un quotidiano sportivo o di un periodico di settore. A me fa piacere”. Ha fatto altro uno dei pochi italiani a battere il campionissimo elvetico.

Nato il 10 settembre del 1970, un idolo, Mats Wilander, è stato professionista dal 1988 al ’98, conquistando una decina di tornei ATP e arrivando alla posizione numero 191 della relativa classifica. “Ho praticato nuoto sino all’età di 10 anni, iniziato a giocare a tennis a 9, con le racchette di legno (le mitiche, quelle dell’immenso Bjorn Borg) sino a 12, terminato a 28, a Belgrado, per tutta una serie di infortuni. Fisicamente tirato, non raggiungevo i 70 chilogrammi, ma mi sono tolto alcune soddisfazioni vincendo in Bolivia, in Marocco e girando il mondo, perché all’epoca non c’erano tante competizioni in Italia e bisognava prendere l’aereo e partire. Rimpianti? L’anno del militare, che bloccò la mia ascesa: avevo 21 anni, ero già 200° al mondo. Furono mesi difficili, che mi tolsero energie preziose: sapevi solo all’ultimo se potevi muoverti, il nullaosta arrivava in extremis, ti trovavi solo in Paesi lontani a sbrigare le pratiche burocratiche. Era un altro tennis, senza cellulari e internet: telefonavi una volta a settimana alla famiglia, alla fidanzata”.

Già, Alessia, divenuta sua moglie nel ’99, la madre dei due figli, il 16enne Marco, una seconda categoria con cui ha disputato il primo doppio lo scorso ottobre, e Lorenzo, 14 anni, anch’egli tennista. “Due elementi bravini, di cui sono anche il maestro. Bello, ma complicato, esserlo dei figli, perché è arduo scindere la figura del padre da quella del maestro. È anche per questo che tendo a delegare ad altri”. In quel famoso torneo satellite, superò in semifinale col punteggio di 6-3 6-2 colui che avrebbe vinto 8 Wimbledon. “Ricordo di aver chiamato Alessia la sera prima del match, dicendole ‘domani gioco contro un ragazzino di undici anni in meno, se perdo potrebbe essere giunta l’ora di smettere’. Eravamo vicino a Crans Montana.

Federer era campione europeo under 16, ma vinsi facilmente. L’anno successivo lo svizzero vinse in Coppa Davis e salì al sessantesimo posto. Non l’ho più incontrato, ma credo che si ricordi di quell’incontro, uno dei primi della carriera. Per lui ha recitato un ruolo fondamentale Lundgren, il coach di allora, che ne migliorò la testa. Si dice che il 70 per cento del campione la fa la testa. Bene il fisico, benissimo il talento, ma la testa fa la differenza. Le emozioni sono fortissime, la paura la provano tutti, sei sotto stress, sempre solo in campo, devi gestirti gli infortuni, hai pause nelle quali devi pensare la strategia da adottare”.

Orgoglio di babbo Giuliano e mamma Franca (“Mi hanno sempre supportato, specie economicamente, all’inizio, quando devi investire su te stesso”), a 17 anni è andato a Latina, al centro di Barazzutti. “Devo molto a lui e soprattutto a Giampaolo Coppo. Sono rimasto coi piedi per terra: è importante”. Oggi gestisce una scuola tennistica che è al 35° posto su 3mila in Italia. E può ripensare, sorridendone, al successo su Federer, ma pure su Corretja, poi numero 2 al mondo, e Berasategui, giunto sino alla settima posizione, o quando arrivò all’ultimo turno delle qualificazioni al Roland Garros oppure al Foro Italico e Kitzbuhel a poco, pochissimo dalla svolta. Da applausi.

Gianluca Barni