Suggestiva messa ad Ara Foscola ’Chiamati’ i 39 morti di colera

Nei primi anni Duemila Rino Barbieri, studioso locale, consultando il Liber Cronicus della parrocchia di Agnino – ricordando le locali testimonianze orali degli anziani del paese che riportavano la lontana notizia di un’epidemia di colera nel 1880 – era riuscito a individuare il luogo dove gli sfortunati compaesani erano stati sepolti. Un terreno paludoso, nei pressi della strada che s’inerpica da Montecorto fino ad Agnino: una località indicata con un nome sinistro e misterioso: Ara Foscola. E’ lì, dal 2006, dopo che gli abitanti avevano ripulito l’area, recintata ed avervi collocato 39 croci (tante quanto i morti lì sepolti) che ogni anno monsignor Antonio Vigo, parroco di Agnino, Magliano e Montecorto, viene ad officiare messa e a benedire il camposanto, accompagnato dai fedeli.

Quest’anno, a causa del forte maltempo e per la impraticabilità del terreno, il prelato vi si è recato da solo e come nelle altre occasioni, li ha “chiamati“ a uno a uno, scandendone il nome e l’età prima di procedere alla benedizione dei luoghi dell’inumazione. Dei 39 lontani abitanti di Agnino, la vittima più giovane era stato il piccolo Antonio Lorenzini di 1 anno e 7 mesi, mentre la più anziana, Caterina Bambini della frazione di Canneto, di anni ne contava 78.

Tutti vittime del colera che nell’estate del 1855 i medici chiamavano “morbo asiatico“ e che aveva mietuto in tutta Europa decine di migliaia di vittime, soprattutto a causa delle mancanze di fognature e delle pessime condizioni igieniche degli abitati. "Li avevano trasportati in questo luogo nascosto e distante dal paese di notte, gettati alla rinfusa su carri trainati da buoi e poi sepolti in una fossa comune, cospargendoli di una grande quantità di calce spenta – ha ricordato monsignor Antonio Vigo – un trattamento da “ultimi fra gli ultimi“, dimenticati da tutti. E’ dall’agosto del 1855 che questi poveri infelici “dormono“ il loro sonno eterno. Da dopo che ne abbiamo scoperto il luogo di sepoltura, ogni anno li veniamo a ricordare e onorare: è il minimo che si possa fare – conclude il monsignore – per questi nostri poveri compaesani, dopo un secolo e mezzo trascorso nell’oblio".

Roberto Oligeri