"Marchio del marmo, troppo complicato"

Si infittisce il dibattito sulla concorrenza del gres. Andrea Balestri già un anno fa evidenziava luci e ombre del progetto sulla doc

Il marmo di Carrara

Il marmo di Carrara

Carrara, 16 ottobre 2019 - Si chiamano calacatta, macchia vecchia, arabescato. Si propongono come marmo, ma della pietra naturale hanno soltanto l’effetto. Non è pubblicità ingannevole perché alla fine sul sito di Ariostea trovi che si tratta di pietra artificiale e gres porcellanato «effetto marmo». Fatto sta che fra gli architetti e progettisti, i cosiddetti decision maker, c’è chi consiglia a costruttori e clienti la porcellana: non si macchia, non invecchia, non si graffia, costa meno e non deturpa montagne e crinali. Intanto le imprese carraresi stanno a guardare e in città ci si continua a interrogare sulla necessità di un marchio che ci difenda dall’inerzia di un territorio che sulla promozione del proprio oro bianco ha fatto poco o niente. Anche perché, almeno finora, non ne ha mai avuto bisogno.

L’argomento ha aperto un vivo dibattito e viene da rispolverare il capitolo del libro sul lapideo di Andrea Balestri, già direttore di Assindustria, che non più tardi di un anno fa (novembre 2018) scrisse "In cerca di empatia. Il settore lapideo, le imprese e le comunità locali". Nel volume un intero capitolo dedicato al marchio di origine. Balestri, dopo aver tracciato lo status quo dei marchi delle pietre nel mondo, riferisce che in Italia i prodotti sono tuttalpiù associati al luogo di origine (dal Botticino all’Asiago, al Calacatta di Borghini alle Pietre di Lessina). Da qui il punto sulla differenza fra le nostre ditte del marmo e quelle della ceramica emiliana, che hanno consistenti budget da investire nel marchio, con pubblicità adeguata a un pool di aziende che operano con logiche industriali, spesso globali, con politiche commerciali aggressive.

"Da noi – è il pensiero di Balestri – si gioca tra un ristretto gruppo di aziende, una folta squadra di piccole imprese che hanno rapporti commerciali di singole commesse. Insomma la ceramica batte il marmo in dimensioni e organizzazione. E anche in scaltrezza verrebbe da dire. Così ogni tentativo di dare vita a qualcosa di organizzato è finito in un anonimo rumore di fondo, fatto di piccole battaglie personali che in città, da sempre, vanificano ogni progetto che dovrebbe essere sostenuto dalla coesione".

"Il marmo è prodotto di nicchia – dice bene Balestri – è già molto conosciuto e non occorre scendere sullo stesso campo di battaglia pubblicitario delle lastre industriali sfornate in grande serie. Più che costosi spot pubblicitari pesano le relazioni personali con i progettisti sui quali la storia dell’arte e la peculiarità evocano altri scenari. Il campo di gioco, è il quadro di Balestri, si riduce a un gruppo di aziende nemmeno troppo unite fra loro, dove non è chiaro se i vantaggi li avrebbero soltanto i sostenitori economici o anche altri".

"Non sia mai. Così piuttosto che promuovere un prodotto per il bene di un intero territorio si continuano logiche di marketing da alto impero, ognuna puntata sulla propria azienda. Insomma un progetto complicato – come lo definisce Balestri :– che si è arenato sia per lo scarso interesse delle aziende, poco interessate a investire, sia a causa delle divisioni tra i diversi operatori. "Si puntava – scrive Balestri – a concedere l’uso del marchio di origine ai soli prodotti lavorati e questo non collimava con la visione del marchio delle aziende estrattive alle quali si chiedeva di farsi carico della maggior parte degli investimenti pubblicitari. Sul piano meramente operativo, ancora, non sono da sottovalutare le macchinose procedure burocratiche dei sistemi di certificazione, dei disciplinari e della rete di controlli".