La Spezia, 23 settembre 2024 – Piano piano, con la sua rigogliosa vegetazione rampicante e quasi prensile, ha avvolto, racchiuso e inglobato perfino quanto di più nocivo e di meno decomponibile è stato – via via, lungo il corso degli anni – gettato al suo interno maldestramente. Irresponsabilmente. Riuscendo a nascondere quei rifiuti, più o meno ingombranti, per farne un raro e prezioso ecosistema ai piedi della città. Come l’ostrica perlifera che genera la preziosa pietra, frutto del fastidio provocato dall’ingresso di un corpo estraneo al suo interno, così più o meno ha fatto il bosco nei pressi della collina di Pitelli che, violato a più riprese dalla mano incivile dell’uomo, ha saputo fare tesoro anche della sua immondizia.
A fare il resto, ci ha pensato poi il fuoco. Sì, perché il grande incendio scoppiato il primo settembre scorso, ha incenerito quel polmone verde mettendolo completamente a nudo. E disvelando così un inconfessabile segreto. Vere e proprie discariche a cielo aperto si ergono sul suolo ora brullo e incenerito: pezzi di sanitari e un lavandino ancora intero, un frigorifero, materassi, reti metalliche, una parabola e uno scaldabagno, intere carcasse di auto, cerchioni, lastre di eternit e – pezzo da novanta – l’enorme tamburo di una betoniera che porta ancora all’interno il suo carico cementificato.
A farci strada in questo panorama desolato e desolante, dove ancora si respira l’odore acre di tutto ciò che è arso, è Ilario Roli: abita in via Canarbino dal 2001 ma da sempre – da quando cioè suo padre comprò un terreno qui nel 1968 – frequenta e conosce questo luogo. “Questo che si può vedere qui – spiega Roli – è il rotore di una betoniera che evidentemente si è rotta bloccandosi e che qualcuno ha pensato bene di scaricare direttamente qui anziché demolire. Questa più avanti invece – continua Roli indicando un cumulo di lastre e detriti – è una discarica di amianto: questo punto era completamente coperto da rovi e vegetazione e non era nemmeno immaginabile che al di sotto vi fosse qualcosa. Lì c’è perfino la carcassa di una vecchia auto. Da questa parte – dice Roli cercando, con la mente, di ricomporre un ammasso indistinto di ferri – doveva essere stata smaltita una pila di pneumatici, sono rimasti infatti i soli cerchioni che il fuoco non ha distrutto. A giudicare dalle dimensioni, doveva trattarsi di copertoni di mezzi pesanti. Proprio da qui, il giorno dell’incendio, proveniva un fumo particolarmente nero e un calore spaventoso”.
A preoccupare Roli non è solo quel che resta oggi del bosco e le sue discariche a cielo aperto che, neppure dopo l’incendio, cessano di essere utilizzate; ma è anche l’area sulla quale sorge un capannone, interessato anch’esso dalle fiamme, la cui copertura è – a suo dire – nociva: “Questo capannone in uso a una ditta edile – osserva – è andato quasi completamente distrutto dalle fiamme e, al di là del danno ai materiali che la ditta vi aveva collocato, la preoccupazione più grande riguarda la sua copertura che è di eternit. A subire le inalazioni di questi materiali tossici siamo noi che quotidianamente passiamo su questa strada ma anche tutti coloro che si trovano a percorrerla. Ho provveduto a segnalare l’emergenza alle autorità competenti, ma temo che i tempi della burocrazia siano troppo lunghi”.
Alma Martina Poggi