
Grosseto, l'alluvione del 1966
Grosseto, 4 novembre 2018 - La chiamarono ‘l’alluvione della povera gente’. Sì perché quando gli angeli del fango a Firenze salvavano i libri e gli incunaboli alla Biblioteca Nazionale, a Grosseto, un’alluvione ancor più devastante, aveva spazzato via nelle stesse ore le certezze di una terra intera. Stamani saranno 52 anni da quel doloroso 4 novembre 1966, quando poco dopo le 8 della mattina si correva per andare a «Porta Vecchia» a vedere l’acqua che aumentava di intensità sul Corso. Oppure salire sulle Mura, che ospitarono migliaia di persone attonite, per guardare le strade sottostanti che si erano trasformate in fiumi di fango e melma. Oggi, dopo 52 anni, molto è stato fatto. Ma troppo ci sarebbe ancora da fare. Il fiume Ombrone, infatti, che corre sulle stesse curve di quando sbriciolò il vecchio argine per una piena mai vista, fa ancora paura. In questi cinquant’anni sono stati quasi tantissimi i miliardi di lire prima (e di euro poi) che sono stati spesi per mettere in sicurezza la piana che era rinata dalla melma grazie alla bonifica.
«La situazione rispetto al 1966 è cambiata tanto – inizia Fabio Bellacchi, presidente del Consorzio di Bonifica, l’ente che da anni vigila sulla salute non solo del grande fiume ma di tutta la piana – ma c’è ancora da fare. Grazie alla costruzione dell’argine che costeggia la città, adesso si può dire che Grosseto non rischia un altro 1966. A meno di un evento veramente eccezionale. In questi anni abbiamo cercato di mettere in sicurezza diversi punti del fiume: stiamo aspettando l’ultimo finanziamento della Regione, che ammonta a 6,3 milioni di euro da destinare alla costruzione del nuovo argine che va da ponte Tura alla centrale idroelettrica di San Martino». L’ultimo pezzo per imbrigliare quel gigante dal nome affascinante. Ma da sempre ostile al territorio che lo ha ospitato. Proprio domani, in Regione, ci sarà un appuntamento importante per tutto il territorio: il Consorzio di Bonifica infatti chiederà al presidente Enrico Rossi di sbloccare l’ultimo ostacolo alla messa in sicurezza. Ovvero riprendere l’escavo del fiume. «Porteremo le nostre istanze – prosegue Bellacchi – che sono quelle di ricominciare l’escavo del fume. Si sono formate decine di isole, che hanno alzato il letto dell’Ombrone. Detriti che adesso rimangono nel fiume, non sono più utilizzati per il ripascimento delle spiagge e solo dopo le tempeste ci rendiamo conto di quanto sarebbero stati importanti». L’escavo dunque. Altro baluardo da scalare. Perché l’Ombrone non aspetta.