La partita a casa Buso Una finale lunga 33 anni "Le vibrazioni di allora" E poi quel grido: "Nooo"

La partita a casa Buso   Una finale lunga 33 anni  "Le vibrazioni di allora"  E poi quel grido: "Nooo"

La partita a casa Buso Una finale lunga 33 anni "Le vibrazioni di allora" E poi quel grido: "Nooo"

di Benedetto Ferrara

FIRENZE

Silenzio. Troppo silenzio. Da queste parti il silenzio non esiste. Rifredi è un quartiere vivo, è musica contemporanea fatta di uomini e motori che viaggiano sulle strade della periferia nord est della città. In quattro in terrazza. Spaghetti alle vongole e gamberetti. Mancano venticinque minuti all’ ora X, la finale europea della Fiorentina. Dopo 33 anni. A Torino e ad Avellino Renato c’era. Stasera, coi capelli grigi e trentatrè anni in più sulle spalle, insieme a Camilla e ai due figli Daniel e Sofia, aspetta quel momento atteso troppo a lungo Renato Buso, ex enfant prodige arrivato a Firenze dalla Juve, dice che in questi casi il tempo non esiste.

"Chi ha giocato a pallone sente cose che gli altri non capiscono. La notte dorme e a volte sogna di far gol, si alza in piedi dal divano per colpire di testa un pallone che non c’è. Conosco quelle emozioni, le sento come le stanno sentendo ora i giocatori che entreranno in campo. Funziona così". Dalla terrazza dove è sistemato lo schermo da 55 pollici si vede un giardino e oltre palazzi probabilmente pieni di famiglie colpite come lui dal silenzio intorno. E’ l’attesa, quella meravigliosa sensazione fatta di farfalle viola che volano nello stomaco. Renato non segue il percorso della scaramanzia, anche se sopra i pantaloncini corti ha una maglietta viola addosso. Camilla invece cerca di ricordarsi dove si era seduta a tavola quando aveva visto la sfida di ritorno col Basilea. I figli indossano la maglia della Fiorentina. Arrivano gli spaghetti.

La formazione va commentata.

"Mi aspettavo Cabral. Per quello che ha dimostrato. Poi Kouamè. Questione di sacrificio difensivo, evidentemente. Facile parlare quando sei altrove. Un allenatore rischia le sue scelte. Vediamo". Brividi. Quelli che corrono veloci sulle pelle di una città. Di un popolo suddito del colore viola.

"Il calcio è questo. Una finale non si spiega. Lo sanno i tifosi. I

giocatori. Lo so io". Vino bianco alla giusta temperatura. La storia di questo 7 giugno inizia adesso. Il primo tempo arriva tra sangue e fiction. Il sangue è quello che scende sul collo di Biraghi. La fiction è quel gol che ha fatto esplodere la città. Per qualche istante. Buso è un po’ deluso. Non dalla Fiorentina, dalla partita. "E’ una sfida bloccata. Loro si sanno difendere, noi facciamo fatica a costruire occasioni. Anche se al gol non

gol di Jovic è esploso il mondo. Qui intorno tutti usciti in terrazza a urlare di gioia. Si sentiva anche l’urlo del Franchi. Ma forse me lo sono sognato. Pazzesco. Che voglia di festeggiare, mamma mia. C’è una città in tensione. Camilla ha chiamato una sua amica che è allo stadio a vedere la partita sui maxi schermi. Sono trentamila. Siamo meravigliosamente folli". Sì. Ma adesso? Come si fa a sfondare quel muro?

"Serve qualcuno che accenda

l’azione improvvisa. Serve qualcuno che ci metta più cuore in area. Uno come Cabral. Poi magari Sottil, o Saponara. Non so. Marianella fa di tutto per raccontare una grande partita, ma per ora, a parte quel gol annullato,

non è successo niente. Molti errori, da una parte e dall’altra. Tutto come previsto: la Fiorentina ci prova. E ci proverà ancora". E nel frattempo…

"Nel frattempo abbiamo finito il prosecco e tutte le ciliegie. E’ ancora lunga". Lunga e sofferta. La partita si sveglia, male per la Fiorentina. Un fallo di mano di Biraghi. Un rigore e un gol. Tutto difficile. No. C’è Jack.

Capitano nel cuore e nei piedi. C’è il pareggio. Tutto aperto. Firenze sogna. Firenze soffre. Sulla terrazza di Rifredi non si beve e non si mangia più. Occhi incollati alla tv. I bambini, Camilla. E lui. Che insieme a tutta Firenze può solo gridare: "Noooooo". Un errore di posizione di Biraghi, una buca di Igor. A campo aperto. Ancora lui. Buso è atterrito. "Ma come si fa a prendere un gol così all’ottantanovesimo. A quel punto devi gestire. E’ difficile da accettare. L’abbiamo buttata via. Peccato. L’avevamo raddrizzata. Mia figlia ha pregato fino alla fine. Due finali perse

così".

Niente. E’ finita. Cala di nuovo il silenzio. Non è più l’attesa. E’ solo tristezza. Malinconia.

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