REDAZIONE CRONACA

"Le chiacchiere alla finestra, la nonna, i dolci Oltrarno non sei più tu, ma ti amo ancora"

La famiglia di Mirco Rufilli , presidente della commissione toponomastica di Palazzo Vecchio, vive da generazioni in San Frediano "Niente citofono, per chiamarsi bastava fischiare dalla strada. Eravamo amici, protetti, felici. Negli ultimi anni tutto è cambiato"

Firenze, 9 agossto 2021 - Non facciamone un mistero. Al netto delle epiche – ma ormai lontane – pagine di Pratolini cucite nella memoria collettiva e del ritornello del quartiere un tempo popolare e ora ’cool’, per gran parte dei fiorentini da anni ormai l’Oltrarno è un oggetto misterioso. Vuoi per il graduale spopolamento del centro con la contemporanea espansione della città lungo il quadrante nord ovest (che con ogni tipo di servizi è ormai una seconda città, indipendente), vuoi per le difficoltà di raggiungere i rioni di là dal fiume , vuoi ancora per il ciclico caos di stranieri che affollano locali creati per loro ad hoc alla fine di Oltrarno si parla solo per le notti balorde della movida o poco più. Ma c’è ancora, annidata tra il Ponte Vecchio e il circolo del Torrino, una Firenze che resiste, famiglie che ancora - da generazioni - vivono il quartiere. Quella di Mirco Rufilli, presidente della commissione toponomastica del Comune è una di quelle. Riceviamo e pubblichiamo un suo intervento. L’Oltrarno non esiste. O almeno non esisteva negli anni Ottanta: troppo vasto e vario per essere considerato un solo quartiere. Troppe piccole realtà diverse. Santo Spirito, San Frediano e San Niccolò erano tre zone ben divise. Ogni famiglia viveva le strade e i negozi del suo rione. C’erano affetti e tradizioni racchiusi in poche decine di metri. Via dei Serragli era la linea di separazione: il cantone sinistro con i numeri dispari Santo Spirito, lato destro numeri pari San Frediano. Ancora oggi Moreno, 88 anni e nonno di mia moglie, me lo ricorda sempre. Io sono cresciuto in via Maffia: mio babbo lavorava come orafo. Era bravissimo. In quella strada vivevano anche mia nonna e mia zia. Mio zio invece sempre in Via Maffia aveva ereditato la bottega di imbianchino da mio nonno “Cecco”. La scuola, con l’asilo e le elementari erano lì. I ragazzi trascorrevano il tempo in queste vie. Qui si sposavano. Mia moglie è nata in via del Campuccio, io in via dei Serragli e insieme, più avanti, ci siamo trasferiti in San Frediano. Oggi sono pochi quelli nati nella zona e che ancora la abitano. Mancava forse la visione del futuro, comprarsi casa non era semplice. La sensazione all’epoca era di avere tutto ciò che ci serviva in Santo Spirito. Come un piccolo paese, incastonato dentro la città. Un cuore in cui le persone trovavano gli amori, le amicizie. Non si usciva molto dal rione. In San Frediano iniziai ad andarci quando avevo 10-11 anni, da solo anche la sera. Assaporavamo i riti. Come quelli della domenica, quando andavamo alla pasticceria Pesciullesi a prendere la schiacciata alla fiorentina. Durante il carnevale era quasi un obbligo. Le campane di Santo Spirito suonavano, scendevo con mio babbo e mia mamma vestiti per bene e si andava la mattina a mangiare il maritozzo o la schiacciata. Nel rione ci conoscevamo un po’ tutti e c’era un equilibrio, anche sociale ed economico. Mia nonna aveva il campanello a corda e io lo fissavo dal basso verso l’alto senza riuscire a tirarlo perché era durissimo. Così avevo iniziato a fare come mio babbo, che fischiava quando arriva sotto casa per farsi sentire dalla mamma. Quando mio babbo morì, ereditai il suo fischio. Arrivavo sotto casa, stringevo le labbra in un fischio e lei mi metteva 500 lire di carta in un panierino per poter prendere un gelato in via Sant’Agostino e lo calava dalla finestra. Sembra un tempo lontanissimo, più vicino agli anni Quaranta. Forse perché Santo Spirito è sempre rimasto indietro nel tempo. Ed era la sua bellezza. Venivano però anche tanti calciatori: Antognoni, Pin, Galli. Andavano da Toni, che era diventato un po’ il parrucchiere della Fiorentina. Un quartiere popolare ancorato al suo passato pittoresco, ma che iniziava ad avere anche una visione più moderna. Era il folklore che incontrava le dinamiche molto più rapide del resto della società. Noi passavamo il tempo a chiacchierare alla finestra con i nostri vicini, ci confrontavamo. Oggi i miei figli, come tanti altri, non vivono più questi scambi. Forse c’è troppo individualismo e dispiace aver perso quelle tradizioni che, prima ancora di cultura e luoghi, erano fatte da abitudini delle persone.