Editoriale

Gian Carlo Fusco, La Spezia e quelle storie del passato

Gian Carlo Fusco (1915-1984) è stato figura leggendaria della cultura del dopoguerra. Giornalista, scrittore, attore, ha attraversato territori diversi. Brillante, tagliente, ebbe la vocazione dell’ironia, del sarcasmo, esercitato contro le autorità del momento. Il suo esordio narrativo, Le rose del ventennio (1958), narrava con piglio ribaldo gli aspetti più orrendi del passato regime, non mancando però di esprimere aspetti di pietas verso le vittime di quell’epoca.

Notevolissimo è il romanzo Guerra d’Albania (1961), che partiva da memorie personali per disegnare il ritratto crudele di un’epoca di “stupidità, incompetenza, ferocia insensata, sacrifici inutili”. La burocrazia nei suoi aspetti più orrendi era, in definitiva, l’argomento principale della prosa di Fusco, brillante e derisoria.

Quella stirpe di controllori della vita altrui, sempre pronta a  esercitare malvagiamente la propria autorità contro chiunque si volesse ribellare, o esprimesse opinioni diverse. Eros è d’altra parte altro tema principale della scrittura dell’autore spezzino, che firmò, tra l’altro, Quando l’Italia tollerava (1965), dedicato alle vicende paradossali delle case di tolleranza e I Mille e una notte. Storia erotica del Risorgimento (1974), edito dalla clamorosa editrice Adelina Tattilo, specializzata in pubblicazioni erotiche. Non per caso, al cinema è comparso in più occasioni nelle pellicole di Tinto Brass, di cui ha sceneggiato Yankee, Nerosubianco e Action. Le sue opere, a lungo dimenticate, sono state ripubblicate da Sellerio, che ha posto titoli come Duri a Marsiglia, sulla mala della città francese, Mussolini e le donne, La legione straniera, L’Italia al dente, A Roma con Bubù.

Storie del passato esce sul numero celebrativo del centenario de La Nazione il 19 luglio1959 e  racconta la sua città, La Spezia. Il punto di partenza è l’arrivo di Richard Wagner, che, presa dimora nella centrale via del Prione, si trovò a dover convivere con i marinai in libera uscita della nave Vittorio Emanuele II, che si davano a orge con le signorine locali, che si concedevano per la modica somma di venti soldi. Segue poi una memoria personale in cui gli usi della marina, e il colpo di cannone sparato tutte le sere, con la fanfara della banda dei giardini.

Circa cent’anni or sono, in una cupa sera di libeccio, un viaggiatore sulla cinquantina, nervoso, dal profilo grifagno, scese al migliore albergo della Spezia. Anzi, semplicemente di Spezia; poichè l’articolo «La», distintivo delle piazzaforti militari marittime, fu aggiunto al nome della città molti anni dopo. Il maturo ed inquieto viaggiatore, che masticava un po’ d’italiano con pronuncia palesemente tedesca, salì subito in camera. Stanco come era, si ficcò senz’altro sotto le coperte. Sul registro del modesto «bureau» aveva scritto, a tratti energici, le proprie generalità: Riccardo Wagner, musicista. Proprio quel pomeriggio, la squadra navale di Sua Maestà Vittorio Emanuele, comandata dal contrammiraglio Vittorio Riccardi dei conti di Netro, si era ancorata nel golfo. Una dozzina di unità, alcune in ferro, altre ancora in legno, raccolte attorno alla pirofregata Carlo Alberto » (51 cannoni, 368 uomini di equipaggio), come pulcini alla chioccia. Nonostante il mare fosse scuro, infuriato, spezzato da schiume improvvise e ribollenti, i marinai «franchi», vale a dire liberi dal servizio, non rinunciarono a scendere a terra. Le imbarcazioni a sedici remi, arrancando faticosamente, rovesciarono sulla banchina del porticciolo militare alcune centinaia di uomini baffuti, abbronzati, stretti nelle «cappottine » impermeabili, costretti a trattenere con la mano i cappelli rotondi, a tese larghe, incerati, affinchè il vento non li strappasse via.

Come d’abitudine, la «ciurma franca» si riversò in blocco nella strada centrale della città: la via del Prione, così chiamata perchè un tempo vi si trovava la grossa pietra sulla quale, come prescritto dall’antica legge genovese, veniva battuto tre volte il sedere dei commercianti falliti. I robusti e ruvidi marinai si avventarono alle bottiglie di sciachetrà » (vino delle Cinque Terre, a quel tempo genuino); alle «farinate di ceci, dorate e bollenti; alle donnine ben tornite, in scialle e pettine alto, dispostissime a lasciarsi sedurre previo versamento anticipato di dieci o, al massimo, venti soldi. Lungo tutta la strada, stretta e contorta, gazzarra piena. Fu così che Riccardo Wagner, il cui albergo, sfortunatamente, era situato proprio a metà di via del Prione, fu bruscamente svegliato, nè più riuscì a prendere sonno. Borbottando invettive nibelungiche, si levò dal letto, si buttò sulle spalle una vestaglia di velluto verde, alzò la calza del lume a petrolio e, tanto per passare il tempo, si mise ad annotare i temi fondamentali di una sinfonia. L’indomani scrisse agli amici di Lipsia: « Questa Spezia, cittaducola a mezza strada fra Genova e Livorno, è una delle più rumorose che abbia mai visitato. In proporzione vi è più movimento, la notte, che a Parigi e Vienna. Alloggiando nel centro, non si riesce a dormire. Ciò dipende dai soldati di marina, i quali, durante la libertà, si scatenano come diavoli».

Oggi, La Spezia non è più la cittaducola che in una sera lontana tolse il sonno al Cigno di Lipsia. E’ una città che conta esattamente 117.914 abitanti, in continua espansione fra le colline a forcella del Golfo. Le piaghe aperte dai bombardamenti massicci del ‘44 si sono rimarginate, rinnovando interi quartieri. L’enorme sviluppo dell’aviazione, senza contare i missili e tutte le terribili bombe di ogni genere e tipo, ha ridotto ai minimi termini l’importanza di quella che un tempo fu, dopo Gibilterra, la più inaccessibile e sicura piazzaforte marittima del Mediterraneo. In compenso, cresce a vista d’occhio il movimento del nuovo porto mercantile, e il reddito turistico, alimentato da Lerici, Portovenere e Fiascherino, gemme del Golfo, è in costante aumento. Noi, però, che passammo alla Spezia tutti i nostri anni, dalla nascita al fatale 1940, conserviamo della città un ricordo essenzialmente militare marittimo: gremito di «marinai franchi», di colletti azzurri; di ufficiali stretti nella mantellina sotto i portici ventilati di via Chiodo; di sottufficiali in «cappottina», a passeggio con moglie e figli, la domenica pomeriggio; di stiratrici in lacrime, fra vapori d’amido, per facili spergiuri d’amore; di mature affittacamere che conobbero appena usciti dall’Accademia i futuri ammiragli di squadra; di storie piccanti, fra mogli a terra e mariti a bordo, amanti a bordo e mariti a terra.