Crisi libanese: la missione Unifil baluardo di stabilità. “Paghe da fame, un insegnante guadagna 20 euro”

Il delicato lavoro quotidiano dei soldati italiani al confine con Israele, sulla cosiddetta Blue Line che garantisce la pace tra i due Paesi. Servirebbero riforme per il Libano, ma tardano ad arrivare

Soldato della missione Unifil in una strada libanese

Soldato della missione Unifil in una strada libanese

Tyro, 20 marzo 2023 – “La missione Unifil è molto impegnativa e coinvolge due Paesi molto importanti come Libano ed Israele, la crisi economica, finanziaria e politica libanese di certo aggiunge criticità, ma se consideriamo che ogni giorno vengono svolte circa 450 diverse attività sul territorio e che le violazioni registrate sono pochissime allora si capisce quale sia l’importante lavoro che viene garantito dal contingente impegnato, all’interno del quale l’apporto dei militari italiani è di grandissimo rilievo”.

Le parole spese pesano tanto, perché sono quelle di Andrea Tenenti che di Unifil conosce tantissimo, considerato che ne è il portavoce da sedici anni. Quindi, pesano. Come significative sono quelle che fa seguire.

Andrea Tenenti, portavoce Unifil
Andrea Tenenti, portavoce Unifil

“Sedici anni di stabilità – continua Tenenti – sono il risultato del lavoro svolto quotidianamente dai militari della missione in un teatro dove basta pochissimo per far saltare gli equilibri. Basti ricordare che nel 2010 ci fu un conflitto a fuoco che costò la vita a quattro persone solo perché gli israeliani tagliarono un ramo di un albero che a loro dire offuscava la visuale di una loro telecamera. Il fatto accadde in una zona della Blue Line i cui confini non erano ancora definiti e i libanesi si erano opposti alla rimozione di quel ramo. Stiamo parlando anche di questo, insomma”.

Vita quotidiana in una città libanese
Vita quotidiana in una città libanese

Situazione che poggia sempre su equilibri fragili e facili da alterare, come è accaduto – ad esempio – con alcune dichiarazioni arrivate dopo l’adozione della Risoluzione 2650 approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu lo scorso 31 agosto. Secondo alcuni, infatti, il suo contenuto avrebbe trasformato il contingente Unifil in “forza di occupazione nel Libano del sud”.

“Ed era una falsità – dice Andrea Tenenti -. Su questa cosa c’è stata molta disinformazione, perché nulla cambiava rispetto a quanto previsto con la Risoluzione 1701. Anche questa, infatti, prevedeva che i Caschi blu potessero svolgere la loro attività anche senza la presenza delle Laf. Ma la notizia messa in giro così ha creato situazioni delicate”.

A mettere sul piatto della bilancia carichi ancora maggiori ci sta pensando adesso la gravissima crisi che il Libano sta attraversando ormai da tre anni. Quella economico finanziaria (la peggiore nella storia del Paese, a detta degli analisti) e quella politica, con l’elezione del presidente della Repubblica attesa ormai da ottobre e un parlamento, di fatto, decaduto.

Non è certo la prima volta che il Libano si trova a fronteggiare uno stallo politico, ma questa volta sembra giocare un ruolo decisivo anche nel default dell’economia.

Qui la chiamano “depressione deliberata”, perché l’assenza di un qualsiasi progetto di riforme che possa condurre fuori dalle sabbie mobili non può che essere imputato all’inerzia dei partiti politici, anche se questi rifiutano l’etichetta di maggiori sospettati e continuano a puntare il dito su “fattori esterni” come causa del tracollo che, tradotto in numeri, può essere riassunto sinteticamente così: il sistema bancario ha già perso qualcosa come 70 miliardi di dollari, lo stipendio medio di un insegnante oggi equivale a 20 dollari, quello di un ufficiale dell’esercito è sceso (come potere di acquisto) da 4500 a 100 dollari. Per acquistare un dollaro occorrono oltre 90mila lire libanesi e i bancomat sono ormai solo oggetti decorativi: non erogano più una lira da mesi.

E questo spiega il motivo per il quale ad ogni angolo di strada c’è qualcuno con una mazzetta di soldi in mano con la funzione di cambia-soldi. Una specie di bancomat umano. Non è più neanche il Paese dove la benzina costava pochi spiccioli, considerato che adesso per un pieno il conto presentato supera il milione e 200mila lire libanesi.

Chi paga (o chi pagherà) questo default? Questo è il punto. L’unica cosa sulla quale sembrano tutti d’accordo è che non potranno essere i depositi bancari (oggi bloccati) a sostenere la ripresa, ma a fronte di questa presa di posizione nessun partito ha ancora spiegato i motivi per i quali sono già tre anni che il Paese si trascina dietro il negoziato con il Fondo monetario internazionale che, se chiuso, potrebbe dare gambe al cammino verso l’uscita del tunnel.

E più tempo passa e più sarà difficile poter contare su erogazioni in linea con le effettive esigenze di un Paese che ancor prima di chiedere risposte al di fuori dei confini nazionali dovrebbe cercarle al suo interno.

Ecco il senso dell’espressione “depressione deliberata” ed ecco il senso del dito puntato contro l’intera classe politica libanese incapace (o per decisione volontaria) di presentare un piano credibile di riforme che interrompa anche lo svuotamento delle stesse Istituzioni (gli uffici pubblici sono aperti solo due-tre giorni alla settimana) e faccia riprendere almeno gradualmente il funzionamento della scuola (gli studenti sono a casa da oltre tre mesi, anche perché gli insegnanti non possono più permettersi di sostenere i costi del carburante per raggiungere le sedi) e degli ospedali.

“Qui a Tiro – racconta il sindaco Hassan Dbouk, in carica da tredici anni sotto la bandiera di Amal – vivono 300mila persone, ma solo il 2,5 per cento di loro può ancora permettersi una cena al ristorante. Di chi è la colpa di questa crisi? Noi non lo sappiamo, non abbiamo notizie attendibili, ma una cosa è certa: nessun partito dimostra di avere una seppur minima visione del futuro per il Paese e questa drammatica situazione sta facendo esplodere il fenomeno della corruzione”.

Adesso non si trovano più neanche i farmaci e se ci sono hanno un costo insostenibile per le famiglie, tanto che i libanesi che vivono all’estero quando tornano a salutare i familiari non portano regali, portano valigie piene di scatole di medicinali.

E dall’estero, d’altronde, di aiuti arrivano eccome. Sono i libanesi (molto) benestanti che hanno lasciato la loro terra che ogni anno si calcola facciano arrivare ai propri cari circa 7 miliardi di dollari. Siamo al cospetto di un Paese con un’economia interna a conduzione familiare.

“La Croce rossa di Tiro – racconta la sua vicepresidente Haifa Kerdi – prima della crisi assisteva circa 1200 persone al mese, adesso sono 15mila. C’è bisogno di tutto: farmaci, cibo, pannolini e pannoloni per adulti, e anche di nuovi volontari perché ora non riusciamo più a prestare assistenza a tutti coloro che ne hanno bisogno. Oltre alla città, noi ci preoccupiamo anche delle persone in difficoltà che vivono nei 70 villaggi compresi nella nostra provincia”.

E il costo sociale della crisi deve tener conto pure della presenza dei rifugiati siriani che secondo l’ultimo censimento ufficiale sono un milione ma che stando ad stima approssimativa ma molto attendibile sarebbero oltre due milioni.

Qui la questione è molto delicata, perché come prima cosa si deve evitare che, parlandone, si possano innescare tensioni sociali. Ma su un punto sono tutti d’accordo, senza alcuna divisione né politica né religiosa: adesso è necessario creare le condizioni affinché i siriani possano tornare nel loro Paese. Ma il devastante terremoto ha complicato le cose.

E quindi? Quindi sta nascendo un altro problema, quello delle partenze irregolari anche dalle coste libanesi con circa 1500 esodi ogni anno. Non un numero grandissimo, ma fino ad un paio di anni fa le partenze erano a zero. Fuggono i siriani, ma anche intere famiglie libanesi.

E se il Paese ha toccato il fondo si torna a guardare alla politica la cui latitanza nella gestione dei problemi non può più sfuggire a nessuno, ma la classe politica contro la quale si era scesi in piazza resta sempre lì e le forze che l’avevano contestata non sono poi riuscite a prendere spazi e iniziative in grado di dare concretezza alla teoria.

Il primo passo potrebbe essere arrivare all’elezione del presidente della Repubblica (i candidati sono tre, più o meno ufficiali), ma su questo punto l’interesse della comunità internazionale sembra tiepido, perché traspare la convinzione che sia necessario che queste carte i libanesi se le scozzino da soli iniziando a dare uno scossone all’immobilismo interno.

D’altra parte, è chiara una cosa: nessun intervento internazionale in fase di mediazione potrebbe trovare applicazione di fronte alla volontà di non dialogare tra loro dei partiti libanesi. Siamo in presenza di una “vetocrazia”, dove il “no” anche di una sola parte è in grado di bloccare tutto. Come in effetti sta accadendo.

“Forse eleggere il presidente non sarà sufficiente a riprendere la marcia – sottolinea il sindaco Hassan Dbouk -, ma sarebbe qualcosa. E non importa chi sarà eletto, perché non abbiamo bisogno di un nome piuttosto che di un altro, il popolo libanese ha invece bisogno di un programma concreto, serio e attuabile”.

Ma per arrivare qui occorre che qualcosa di importante si smuova e questo “qualcosa” non potrà che essere la politica. C’è ottimismo per l’arrivo di un accordo? La risposta la lasciamo a Dbouk. “Fra le altre cose – dice – vorrei ricordare che nelle nostre scuole non si insegna la storia, perché non esiste ancora un libro su questa materia. Non esiste una ’Storia’ condivisa che possa essere raccontata ai nostri ragazzi e quindi non si spiega e non si studia a scuola”. Ottimismo? Mah…