Béla Tarr, una retrospettiva con L’uomo di Londra

Venerdì 3 maggio alle ore 21, presso Palomar Casa della cultura, a San Giovanni Valdarno, il film

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Arezzo, 2 maggio 2024 – Casa Masaccio centro per l’arte contemporanea, in occasione della retrospettiva dedicata al regista ungherese e della mostra Melancolia della resistenza: Béla Tarr / Adrian Paci, a cura di Saretto Cincinelli, Casa Masaccio fino al 30 giugno 2024 è lieta di presentare Venerdì 3 maggio 2024 alle ore 21, presso Palomar Casa della cultura, Piazza della Libertà 15 a San Giovanni Valdarno, il film L’uomo di Londra (Ungheria/Francia/Germania,2007) (130’). Un’opportunità unica per approfondire la cinematografia e la ricerca del regista ungherese, indiscussa figura di culto del cinema mondiale.

Tra gli autori più innovativi del cinema il visionario regista ungherese ha conquistato, per il suo stile inconfondibile, l’interesse della critica internazionale (da Susan Sontag a Jacques Rancière). Il suo itinerario dall'esordio alla fine degli anni Settanta fino al definitivo Il cavallo di Torino, 2011, si presenta come una delle prove più cristalline e radicali che la storia del cinema abbia conosciuto: una sorta di ascetismo del linguaggio cinematografico raggiunto attraverso la contemplazione, il recupero della dimensione della durata, l'impalpabilità delle strutture drammaturgiche e la relativa contestazione dell'economia narrativa, la riduzione al minimo dell'inquinamento spettacolare. Stimato da registi quali Martin Scorsese e Gus Van Sant, Tarr si è guadagnato la partecipazione a festival internazionali e innumerevoli retrospettive museali: dal MOMA al Centre Pompidou.

The Man from London

Ungheria, 2007. Genere: drammatico

Durata 132'

Regia diBéla Tarr

Con Tilda Swinton, Miroslav Krobot, Volker Spengler

Adattamento dell’omonimo romanzo di George Simenon, L’Homme de Londres, segna il ritorno al lungometraggio dell’ungherese Bela Tarr. Nel 2000 ha girato Werckmeister Harmoniak (Le armonie di Werckmeister). Maloin trascorre una vita semplice e senza slancio, ai confini del mare infinito: di rado si accorge del mondo che gira intorno a lui. Sembra aver accettato il lungo ed inevitabile deterioramento della sua vita e la sua immensa solitudine. Quando diventa testimone di un omicidio, la sua vita dovrà fare i conti con la colpa, la morale, il tradimento. Il fatto straordinario andrà ad intrecciarsi con una vita familiare piena di conflitti e di disperazione e con un ispettore di polizia impegnato a risolvere il caso. La storia di Maloin sembra essere quella di molti, di tutti quelli che si interrogano ancora sul senso dell’esistenza. Poeticamente macchinoso, lento sino allo spasimo, Béla Tarr, uno dei grandi maestri del cinema dell’est, sembra muoversi tra corpi giganti del bianco e nero e della teatralità del dramma. Confusione dell’uomo con la natura, di una visione “chiusa” dal e sul mondo della quotidianità sconvolta per una “morte”. La monotonia del cinema, tra ombre noir, pesantezza dello sguardo, è il trucco che non rappresenta il normale per rappresentare il nulla, che non rappresenta il saggio sulla società, ma la poesia dell’uomo. Vecchio e nuovo, maestro e infante, nella stessa inquadratura, nello stesso spazio, quello della gioventù assente o demente, come un rumore bianco di creature morte e non creatori. Tarr è di questa terra, lontano dalla realtà, imitatore dell’esistenza, idea peregrina del muto o terra e polvere che torneremo ad essere. Questo è cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c’è solo un lungo e un attesissimo attimo. Attimo senza tregua: il cinema chiede di essere considerato un unico atto, un miracolo mai esaurito in una fiammata. Tarr illude, perché ci fa vedere sempre e ancora: la sua messa in scena è un tormento, un’ossessiva ricerca del punto dove piantare la macchina, del punto dove non è impossibile ricordare e della forza misteriosa delle cose che vorrebbero farsi ricordare come di quelle che si vogliono far desiderare e amare. Crediamo di scoprire fantasmi e ricordi mentre anche le immagini ci sfuggono: tutto ciò che è gioco e che è in gioco, svanisce. Come nel luogo (politico) della coscienza, niente di quello che si mostra è inventato: ogni cosa è realmente accaduta e accade senza apparenza. Qualcosa di più di un ritratto, di un quadro e la sua cornice: quando lo sguardo si blocca per minuti, il set si espande, squarcia le memorie, lascia aperta sempre una porta, o un porto, da cui uscire ed entrare. Il cinema dei perdenti, deflagrati dal nulla che va riempito dai sogni e poi coperto dalla terra. Anche il segno cinematografico si ripete sempre, come una visione del mondo ormai quella, ma è una ripetizione da fuoricampo, caparbia e sensibile attenzione alle sfumature, ai dettagli infinitesimali di luce, suoni, movimenti del tempo, modulatori delle immagini. Tarr sembra fare cinema per dimostrare che non viviamo nel migliore dei mondi e del cinema possibili, che restano a volte fuori, dalla finestra o dalla sala: il fuori di Tarr non è mai del tutto escluso, esiste e si annuncia, arricchisce e smargina il dentro, nel bianco finale oltre il tunnel della messa in scena. È crudo, è duro, come il sudato pane del giorno prima. I corpi ci coprono, li senti addosso e vorresti girarli come leggere pagine di letteratura filmata.

I film di Béla Tarr sono una sfida che può rivelarsi sorprendentemente gratificante per chi sappia raccoglierla. Il cinema, sembra suggerire Tarr, può essere una lente per guardare il mondo. In modo libero, coraggioso e non allineato.