REDAZIONE AREZZO

Viaggio nella crisi del Pd: perchè il crac, partitone senza radici

Reazione di rigetto dopo il tentativo di trapianto renziano. Ora ognuno vuol comandare, il che significa che non comanda nessuno. Il quadro di un partito in difficoltà. La scossa ad Arezzo nel giro di pochi anni

Dirigenti del Pd aretino, al centro il segretario Dindalini

Arezzo, 21 giugno 2016 - ERA UN impero sul quale non tramontava mai il sole, passato pressochè intatto dal Pci, il partito del rosso antico per antonomasia, ai suoi eredi politici. Tutto (in primis gli equilibri del potere) passava per le stanze di piazza Sant’Agostino in cui, senza soluzione di continuità, si sono dati il cambio il gruppo dirigente comunista e poi del Pds, dei Ds, del Pd, nella versione della ditta veltronian-bersaniana e in quella rosè e rottamatrice dei Piccoli Renzi crescono.

Ne rimane ben poco dopo il colpo di maglio di domenica, che rade al suolo un territorio già disseminato di rovine: la sconfitta di Arezzo un anno fa (ma prima c’erano già state Castiglion Fioretino e Bibbiena), le primarie harakiri di Montevarchi in cui il partitone è esploso come un meteorite, il suicidio di Sansepolcro, con pezzi di Pd (almeno alle politiche) perno della coalizione anti-Pd che ha sfrattato Daniela Frullani.

La diagnosi più impietosa la traccia, nel mettere a disposizione il mandato, il segretario Max Dindalini, come a dire il capo della «Ditta»: «Troppo lontani dalle persone, troppo vicini ai palazzi del potere, un partito che come Penelope disfa di notte la tela che tesse di giorno». Fosse davvero un’azienda, sarebbe una dichiarazione di fallimento. Sorprende semmai che un bilancio del genere lo tracci chi aveva le leve (teoriche) del comando.

E’ UN PARTITO, il Pd aretino, nel quale tutti vogliono comandare, il che significa che non comanda più nessuno. Ve lo immaginate il caos di Montevarchi col centralismo democratico del Pci, ma anche solo con le tradizioni politiche di socialisti e Dc, le tre radici da cui nascono i democrats? Ci pensate a una guerra per bande che porta al siluramento di un sindaco in carica, il quale a sua volta reagisce mettendosi in proprio, unico iscritto al Pd candidato ma non sotto le insegne dei suoi?

Ora renziani, non renziani e anti-renziani si rimbalzano le colpe del crac, ma la verità pare che il trapianto di un cuore rosè e renziano nel corpaccione rosso di un tempo ha provocato una reazione di rigetto che ha mandato in coma il partitone malato. Lo spiega bene, forse, la scena di un antico dirigente (di formazione comunista) che commenta il voto e annuncia il suo no al referendum costituzionale: «Io conformarmi a Renzi? Non ci penso nemmeno. E’ un padrone e io i padroni li ho sempre combattuti».

L’ANONIMO dirigente si accompagna col gesto dell’ombrello. Per fedeltà alla linea ha comunque votato i candidati indicati, ma ha smesso di andare a cercare voti per loro come si faceva un tempo fino all’ultimo attivista. Era quella la forza del partitone: le radici sul territorio che si vanno smarrendo, la sensibilità gli umori degli elettori che è quasi persa. Restano la conventicole, ma il tempo lo passano a scannarsi fra loro, dimenticandosi, come a Montevarchi, Anghiari e Sansepolcro, di accordarsi fra loro e di cercare i consensi per vincere. Così, resta solo il Pd d’opinione, il partito liquido senza una rete di sicurezza, che sfonda quando Renzi è di moda e crolla al primo calo di popolarità. Di questi tempi va male, i risultati si vedono.

Salvatore Mannino