
Marco Bicchierai
NL’alto Casentino del periodo “dantesco” (dalla battaglia di Campaldino fino agli anni Venti del Trecento), può essere senza dubbio presentato come il Casentino dei conti Guidi: a fronte di un crollo della loro potenza che si era già avviato dalla metà del Duecento, quest’area resta infatti l’unica dove i vari rami del nobile casato casentinrdr riescono a conservare più a lungo un significativo potere territoriale.
E fra l’altro con alcuni dei conti Dante stesso avrà a che fare nel suo lungo esilio. Ospite del ramo di Romena (ma visse quasi sempre nel castello di Porciano) prima e poi di quello di Poppi dopo, nel 1310. Nel castello, anzi, compose il canto XXXIII dell’Inferno.
Nel Casentino del primo Trecento, oltre ad importanti realtà signorili ecclesiastiche, spiccano appunto le signorie guidinghe di Romena, Porciano, Castel San Niccolò, Pratovecchio, Poppi, Raggiolo: ognuna di esse appartiene a un diverso ramo del casato ed è costituita da un castello principale e vari centri minori.
Il castello principale (con consistenza demografica fra i trecento i cinquecento abitanti, tranne Poppi che arriva oltre 1300) è il cuore amministrativo di ogni signoria e la residenza del conte e di un suo vicario (un notaio che amministra la giustizia civile e penale in nome e per conto del signore). Spesso tale castello (o una sua propaggine più a valle come Stia per Porciano) è anche luogo di mercato e ciò consente di trovarvi una società più variegata, composta, non soltanto da coltivatori e allevatori, ma anche da artigiani, commercianti, religiosi, notai, forestieri, mercenari. Un mix molto eterogeneo.
I conti ne promuovono il ruolo economico e sociale anche con qualche sforzo urbanistico, in particolare a Poppi e Pratovecchio, e cercando di attrarre uomini e capitali; fra l’altro loro stessi non disdegnano di lasciarsi coinvolgere in rapporti economici con “imprenditori” cittadini: contraggono e danno prestiti, partecipano a società, stringono alleanze.
Nello stesso tempo i Guidi cercano di difendere in ogni maniera le loro peculiari prerogative signorili: oltre all’amministrazione della giustizia, la riscossione di censi e tributi, i privilegi sui mulini e su altre attività economiche come le ferriere, i diritti sul taglio dei boschi e sul pascolo, la riscossione di pedaggi stradali, il patronato su chiese e monasteri, soprattutto il diritto di mobilitare uomini per attività militari.
In tutto questo mantengono vivi una memoria orgogliosa del casato, e uno stile di vita signorile che rimane alieno al mondo cittadino.
Manca invece, in questo contesto, una concreta solidarietà di lignaggio: i conti pensano ciascuno a difendere e ampliare il proprio nucleo di castelli e poteri, a scapito principalmente di altri rami del casato stesso, e senza riuscire ad evitare le frammentazioni che sono inevitabilmente legate ai passaggi ereditari.
La strategia di Firenze nel corso del primo Trecento - più proiettata sull’alto Casentino che non Arezzo - si orienta quindi a sfruttare questi contrasti tra i conti e le loro debolezze per estendere il proprio territorio, anche se singoli esponenti cittadini continuano a trarre utilità dall’esistenza di queste realtà signorili sia sul piano politico che anche su quello dei vantaggi economici e fiscali.
Economicamente, infatti, queste signorie casentinesi fanno parte di un sistema nel quale i centri di mercato posti nei domini signorili si pongono come luogo di commercio di prodotti sia locali, sia provenienti da aree più lontane.
Una delle principali specificità era certamente la lavorazione del ferro grezzo, poi vi erano la produzione e il commercio di legname (anche facendolo “navigare” sull’Arno) e l’allevamento (con la commercializzazione dei suoi prodotti: lana, formaggio, cuoio).
Ma l’esistenza stessa di queste realtà signorili agisce da fattore di promozione economica: centri come Poppi, funzionano non solo come nodi di mercato, ma anche come poli amministrativi e giudiziari e quindi possiamo trovare botteghe di beccai e conciatori, di fabbri e maniscalchi, ma anche osterie, e botteghe di speziali, con artigiani e commercianti che non erano di soltanto origine locale, ma potevano pure provenire da castelli romagnoli, manieri del dominio fiorentino o aretino, o dalle stesse città.
La presenza, inoltre, di piccole “corti” dei conti poteva attirare specifiche professionalità (medici, uomini d’arme, cortigiani) ed esse potevano costituire “opportunità professionali” anche per figure provenienti dalle città o da centri esterni al dominio dei conti.
L’extraterritorialità rispetto al dominio cittadino faceva, infine, delle signorie casentinesi dei Guidi un possibile rifugio per sbanditi e fuoriusciti (come appunto lo stesso Dante).
Uno degli aspetti principali delle signorie guidinghe riguarda la loro possibilità di fornire uomini per esigenze militari: i castelli casentinesi diventarono un bacino di reclutamento di armati, e i conti, una volta che ormai erano loro precluse le possibilità di una politica in grande stile, si proposero spesso alle città anche come condottieri non solo dei loro propri contingenti, ma anche di raggruppamenti all’interno degli eserciti cittadini.
Meno numericamente significativo, ma non meno importante è, infine, l’aspetto di notai casentinesi cresciuti come fedeli dei Guidi, e da loro creati notai “imperiali” - che trovavano poi occasione di inserimento in circuiti professionali e politici cittadini.