
Vasco Giannotti
Sabato 30 Gennaio Salvatore Mannino con un articolo di grande interesse è tornato sulla “storia” del PCI aretino, sulla sua grande funzione nell’educare grandi masse di contadini ed operai alla lotta per i Diritti e la Democrazia ma anche sui suoi limiti, in particolare, questa è la tesi di Mannino, su quella doppiezza e su quel mito dell’URSS che avrebbero impedito al PCI di Arezzo, anche al culmine della sua forza, di esprimere una leadership riconosciuta anche con il Sindaco di Arezzo.
Se si può parlare del mito “fare come in Russia” lo si può fare fino al 1953, fino alla morte di Stalin. Fin quando, come ci ha rammentato Claudio Repek nel suo bel libro, anche i dirigenti del PCI di Arezzo terminavano i loro comizi inneggiando a Lenin e Stalin e nelle sezioni del PCI si pianse a lungo per la morte di Stalin.
Ben presto però anche ad Arezzo le cose cambiarono. Nelle sezioni si leggeva Antonio Gramsci e si imparava a studiare la peculiarità della realtà italiana, e sotto la guida di Palmiro Togliatti si formavano generazioni alla Via Italiana al Socialismo.
Il mito si trasformò magari in nostalgia per un sogno che non si realizzava, mentre cresceva forte il senso di autonomia dei comunisti italiani con l’impegno a sviluppare lotte per i diritti nei luoghi di lavoro e nella società.
Mi si permetta un ricordo personale. Giugno 1966, fui invitato a Mosca a portare il saluto al Congresso di Giovani Comunisti Sovietici (Komsomol). Io parlo al Palazzo dei Congressi del Cremlino di fronte a 10.000 delegati. Parlo con alle spalle la Troika che allora guidava l’URSS: Breznev, Kosigin, Podgornyj. La notte prima del mio intervento il mio accompagnatore russo, certo uomo del KGB, mi sveglia ed insistentemente mi chiede di cancellare dal mio intervento la frase che diceva “non c’è socialismo senza democrazia”. Io respingo la richiesta, rifiuto di cambiare, minaccio di non parlare, il testo rimane quello da me voluto. Avevo Solo 24 anni, già forte era in me il senso di appartenenza al PCI, il valore della sua identità e della sua autonomia.
Due anni prima Luigi Longo aveva fatto pubblicare il “Memoriale di Yalta”, gli appunti di Palmiro Togliatti prima dell’incontro con i capi del PCUS che non ci fu perché Togliatti morì il giorno prima. Nel memoriale era sviluppata proprio la visione dei comunisti italiani sul nesso inscindibile tra democrazia e socialismo.
Se limite grande ci fu, fu quello di un deficit di elaborazione nel concreto passaggio dalla democrazia ad un socialismo rimasto vago e lontano nel suo definirsi. Rimanemmo all’esperienza dei consigli di fabbrica di Bruno Trentin che però non riuscirono a divenire forme di controllo della produzione e di autogoverno, al ruolo nell’economia delle imprese di Stato, alle riforme di struttura che non scalfirono mai i sistemi di proprietà ed i rapporti di potere nella società.
Poi il terrorismo nero e rosso, l’uccisione di Moro, il colpo di Stato in Cile, riportarono il PCI al suo essere Partito garante delle Istituzioni e custode della Democrazia ed al compromesso storico che fallisce quando viene ucciso Aldo Moro.
Poi inizia il declino fino alla caduta del muro di Berlino, uno spartiacque della storia che porta anche alla fine del PCI.
Ma torniamo al punto centrale. Perché il PCI, neppure negli anni 75-85, all’apice della sua forza (47% dei voti in provincia, 42% dei voti ad Arezzo) riesce ad esprimere un Sindaco Comunista.
Nel mio precedente articolo del 21 gennaio, anche autocriticamente, ho cercato di analizzare il perché della fallita sfida per un Sindaco Comunista ad Arezzo che vide protagonista me ed il PCI nel 1985.
Era una sfida all’interno della sinistra, tra noi ed il PSI. Era una sfida a cercare di cambiare i rapporti di potere all’interno della città con la guida del più grande partito che rappresentava allora gran parte dei ceti emergenti. Una sfida che reclamava coraggio e compattezza in un partito forte e generoso che fu però permeabile alla paura di mettere a rischio il mito dell’unità a tutti i costi con il PSI e di rompere equilibri che si consideravano potenti se non intoccabili.
Aldo Ducci era un Sindaco autenticamente antifascista, riformista, buon amministratore. Ma era anche interprete e garante di quegli equilibri che a volte spostavano le decisioni principali fuori dalla maggioranza di sinistra, persino fuori dal consiglio comunale. Questo produsse strappi, a volte rotture. Fu ad esempio il caso della sofferta sistemazione urbanistica dell’area Sacfem e, ancora di più, del blocco, come poi avvenne, dell’insediamento di villette private in tutta la collina di S. Cornelio.
Non basta però guardare dentro, ma anche fuori dell’allora PCI. Guardare alle forze in campo in quella fase di grande trasformazione della città: l’affermarsi una imprenditoria diffusa e di nuovi ceti professionali ma anche le zone grigie, la crescita delle posizioni di rendita, il nero del mercato dell’oro ed i facili arricchimenti a scapito degli investimenti produttivi, la crisi di grandi Aziende come la SACFEM e la LEBOLE, il ruolo non sempre trasparente di Banca Etruria, la presenza trasversale delle varie massonerie.
Proprio in quegli anni emerse il peso asfissiante, anche nella nostra città, di Gelli e la P2, i suoi collegamenti perversi con imprenditori, professionisti, uffici pubblici, persino la questura ed il tribunale. Emerse anche Gelli come punto di riferimento delle trame nere e degli attentati fascisti che avevano come base forti insediamenti nella nostra città e provincia.
Il Pci cercò di squarciare il velo, ma fummo soli. Ci fu un silenzio assordante delle altre forze politiche, delle associazioni di categorie, di quella cultura laica e liberaldemocratica purtroppo sempre troppo debole nella nostra città.
La sfida del Pci nel 1985, come risulta chiaro rileggendo il programma “un’idea nuova di Arezzo” era quella della trasparenza e controllo dei cittadini negli atti della Pubblica Amministrazione. Era quella di una mano pubblica, il Comune, forte anche dei nuovi poteri ed allora ingenti fondi della Regione, capace di orientare la qualità di uno sviluppo nuovo della città, compatibile con le nostre specifiche vocazioni, aprendo fin da allora uno sguardo all’Europa e sollecitando le energie più dinamiche, innovative e competenti nelle attività economiche, professionali, culturali.
Ci tentammo, non ce la facemmo. Con un po’ di presunzione penso che quell’appuntamento mancato abbia pesato molto negli anni a venire nel non essere riusciti a definire una chiara visione del futuro di Arezzo e a promuovere classi dirigenti capaci di realizzarla.