Pollicardo: "Continuavo a sperare anche nei momenti più bui"

L'ex ostaggio italiano in Libia ripercorre la prigionia, le violenze e la fuga

Gino Pollicardo a Monterosso, festeggiato dai compaesani (foto Frascatore)

Gino Pollicardo a Monterosso, festeggiato dai compaesani (foto Frascatore)

Monterosso (La Spezia), 8 marzo 2016 – "Il momento più brutto è stato il 19 luglio (il giorno del sequestro, ndr), ma alcuni giorni forse sono stati ancora peggiori. La speranza di tornare l’ho sempre avuta, ma hanno fatto di tutto per darmi motivo di perderla. Sequestratori magnanimi? Il primo giorno ci hanno strappato violentemente tutto quello che avevamo addosso: siamo rimasti in mutande, anzi a qualcuno volevano strappare anche quelle". Gino Pollicardo ricorda così la prigionia condivisa per quasi otto mesi coi colleghi della Bonatti di Parma. Vorrebbe non parlarne e non pensarci più, mettersi tutto e alle spalle e ricominciare a vivere.

Ma le domande incalzanti di chi vuol sapere lo fanno tornare inevitabilmente col pensiero a quei giorni: "Non so se erano dell’Isis, per me chi toglie la vita e priva della libertà è un criminale, che sia dell’Isis oppure il mio vicino di casa, di qualsiasi religione o fazione. Parlavano arabo, e io l’arabo non lo so, a parte Salam Aleikum – spiega Gino – Quando uno ti prende, ti picchia, non ti fa andare in bagno, cos’è? Un criminale. Io non so se il loro obiettivo era prendere soldi, minacciare l’Italia, io so solo quello che ho potuto vivere giorno per giorno: un incubo. Di una cosa sono certo: quando c’è stato il blitz degli americani (il 19 febbraio 2016, ndr) eravamo tutti e quattro ancora insieme".

La paura di finire nelle mani dell’Isis era alta, tanto che i tecnici avrebbero chiesto ai sequestratori di non venderli allo stato islamico ricevendo da questi rassicurazioni. Rapitori che, poco prima dell’uccisione di Failla e Piano, avevano detto ai quattro ostaggi che era tutto finito, che a breve sarebbero tornati liberi. Poi hanno abbandonato il covo con i due ostaggi, lasciando Pollicardo e Calcagno chiusi dentro. Era mercoledì: da quel momento nessuno ha più fatto ritorno nella casa, tanto che, dopo 48 ore senza acqua né cibo, Pollicardo e Calcagno hanno deciso di tentare la fuga e ci sono riusciti: Calcagno con un chiodo ha allentato la porta, Gino l’ha buttata giù con due spallate.

"Una volta che ci siamo trovati fuori dalla prigione, al sicuro nel commissariato di polizia, abbiamo saputo che le bande offrivano 10 milioni per gli ostaggi italiani – avrebbe affermato proprio Pollicardo a uno dei suoi amici che ieri si è recato a salutarlo – . Una volta fuori abbiamo fermato un’auto. È sceso un uomo, gli abbiamo mostrato la benda che avevano usato per tapparci gli occhi e abbiamo ripetuto "italiani polizia". L’uomo ha fatto una telefonata e sono arrivate due macchine piene di gente con i mitra. Abbiamo avuto paura e invece ci hanno portato al posto di polizia, ci hanno rifocillato e affiancato da un interprete. A quel punto ci siamo resi conto che eravamo salvi".

Pollicardo, così come Calcagno, ha saputo della morte dei due colleghi solo al rientro in Italia. "Non lo abbiamo saputo immediatamente dal ministro, ma dopo, parlando con alcuni funzionari: siamo rimasti davvero male. Sapevamo che non erano liberi come noi, quando in Libia prima di partire ci hanno detto che la storia era finita non sapevo a cosa alludessero: risposi che la storia sarebbe finita solo quando fossero ritornati anche i nostri compagni, perchè noi non eravamo due, eravamo quattro".

"No, non sono stato forte – ha aggiunto parlando con gli amici –. Siamo tutti merce di scambio. E non siamo stati liberati: ci siamo liberati da soli, ed è stata la divina provvidenza ad aiutarci. Non si spiega in nessun altro modo. Queste cose hanno delle dinamiche strane, non c’è un perché, ci sono solamente la provvidenza divina e qualche altra mano che ti mettono le cose a posto".