Reportage sulla crisi: Pomino, borgo orgoglioso dove si lotta per l'ufficio postale

Prima tappa del viaggio nei luoghi della provincia di Firenze, tra tradizioni e preoccupazioni per il futuro

Pomino, manifestazione contro la chiusura dell'ufficio postale (Eva Bagnoli)

Pomino, manifestazione contro la chiusura dell'ufficio postale (Eva Bagnoli)

Firenze, 17 agosto 2015 - Prima tappa: Pomino, 35.1 chilometri. Il ritrovo è alle otto e venti in piazza Ferrucci. Di sabato mattina, primo agosto. Arrivare puntuali è un atto di fede, prima che di fiducia. Eppure, forse perché è la prima volta che ci incontriamo tutti e quattro assieme, forse perché l’aria della prima mattina non è un’opzione così spiacevole in giorni di canicola, la squadra riesce a comporsi entro i tempi previsti, e alle otto e quaranta siamo tutti a fare colazione. Le facce, stropicciate, si distendono immediate al contatto con la pasta sfoglia e si rianimano del tutto dopo un sorso di caffè. Una scorsa veloce al giornale, qualche aggiornamento sul piano della giornata, scorta d’acqua fresca e poi tutti in macchina. Oggi si va a Pomino.

La campagna alle porte di Firenze è inondata di luce, e a quest’ora del giorno, senza l’afa che ne sbiadisca il colore, il verde brilla intenso a perdita d’occhio. Nonostante lo spettacolo là fuori, però, le menti sono concentrate su un discorso che ruota attorno ad una distinzione semplice quanto non scontata, ovvero la differenza che c’è tra la crisi e la ‘crisi’. Chi argomenta, un po’ provocatoriamente, sostiene che è vero quel che dicono alcuni, in realtà la crisi è finita, ed “è finita per un motivo molto semplice: sopraggiunti limiti d’età. Una crisi è un evento straordinario che può avere durata variabile, ok, ma non può essere mai un fenomeno che arrivi a durare, per dirne una, sei anni filati! Che crisi è mai questa?”. La risposta sorge naturale: una ‘crisi’, ovvero “un alibi, niente più, una situazione che non ha niente di passeggero e molto di ordinario, chiamata ‘crisi’ al solo scopo di ricacciare indietro l’ammissione che le condizioni di vita alle quali eravamo abituati vanno semplicemente aggiornate”. E il pericolo di non cogliere la differenza è che non si riesca a tenere in dovuta considerazione chi della distinzione tra crisi e ‘crisi’ non si cura affatto, chi vive quella che viene chiamata ‘crisi’ per quello che è: la normalità, un contesto al quale bisogna adattarsi. Concluso un ragionamento che suona definitivo ben oltre le intenzioni di chi lo ha formulato, si rimane tutti sovrappensiero, sospesi tra sguardi lanciati al panorama fuori e attese riguardo la prima tappa di questo viaggio. Siamo all’altezza di Pontassieve quando il discorso si concentra inopinatamente su Madame Bovary. Chi lo sta leggendo ne parla un attimo soltanto, giusto il tempo di far nascere un piccolo dibattito; una discussione che, liquidata la figura di Emma - per alcuni “una esaltata idealista che finisce necessariamente per andare a sbattere contro la dura realtà”, per altri “una persona incapace del minimo dialogo con se stessa” - si concentra sul povero Charles, marito della Signora Bovary, che divide i passeggeri su posizioni inconciliabili. “E’ l’unica persona che alla fine mostra una umanità degna di compassione”, dicono tromboni i vecchi del gruppo, “è un uomo disastroso, incapace e boccalone. Come si fa? Come si fa a stare con una persona e non riuscire a conoscerla neanche un po’?” rispondono i più giovani. 

Superata la Rufina continuiamo a salire e dopo sette chilometri di curve arriviamo a Pomino, piccola frazione di un comune che quest’anno compie cento anni. Rimaniamo colpiti dal silenzio circostante, rotto da un brulicare di bandiere e voci una volta superata la storica macelleria: la piazza è piena. Il paese conta circa duecentotrenta abitanti e pensiamo che siano davvero tutti qui, all’ombra dei pini nel centro di paese - chiamato “la piazza” - proprio davanti all’ufficio postale, con i responsabili di istituzioni e sindacati, assessori e sindaci che guardano la massa armati di microfono ed entusiasmo, perchè nonostante l’ambiente familiare oggi c’è da parlare a tutti. L’occasione è importante. I più anziani siedono davanti concentrati, dietro gli adulti si mescolano a formare un plotone compatto ed in fondo appoggiati tra il muro e la staccionata, per ripararsi dal sole, le nuove generazioni. La mobilitazione per ribadire il no alla chiusura dell’ufficio postale, preventivata dal piano di razionalizzazione di Poste Italiane, che priverebbe il territorio di un importante presidio e i cittadini, in particolare gli anziani, di un ‘servizio universale’, ha funzionato e il clima lo misuri negli occhi e nelle continue strette di mano di chi si è esposto in prima persona. E’ una lotta difficile e in salita, come la strada che porta qui, ma lo spirito di sensibilità e la voglia di crederci li senti vibranti nell’aria. Anche i bambini più piccoli sembrano percepire l’importanza del momento e sono meno loquaci di quanto potrebbero rimanendo ancorati alle mani dei genitori. Mentre slogan, speranze e testimonianze si alternano ad applausi, c’è il gruppo dei più giovani, sempre appoggiati al muro che ascoltano lasciandosi scappare qualche commento. Ci avviciniamo con calma per non disturbarli, ma sanno che non siamo di lì e rallentano le loro distrazioni, ruotando solo ogni tanto la testa consci che qualcuno dovrà fare la prima mossa.

L’approccio è un po' rigido e le prime domande scivolano senza che nessuno voglia prendersi la responsabilità di parlare a nome degli altri, fino a quando la più piccola del gruppo decide di iniziare raccontarci; anche gli altri si sciolgono attirando l’attenzione di quelli accanto, che facevano finta di non ascoltare. Essere giovani qui significa far parte di una ristretta schiera di persone, una quindicina, spalmati in venti anni d’età. I ragazzi di Pomino vanno controcorrente rispetto alle statistiche nazionali sulle fughe all’estero o lontane dal luogo natio. Crescere in un paese forse non è divertente come potrebbe esserlo in una grande città, ma il senso di appartenenza e l’affetto verso le persone e i muri del posto dove si è cresciuti è intrinseco. La città l’hanno provata, alcuni vissuta in maniera intensa. Ancora vi escono per alcuni fine settimana però non la cambierebbero con niente di quello che hanno attorno. Si sentono di appartenere ad un mondo separato, semplice, migliore: qui hanno e sono una comunità. C’è solo un obbligo imprescindibile che è avere la patente, per crescere, per poter andare, fare servizi per amici e parenti, poter girare tra un paese e l’altro, per tornare. La cosa che ci sorprende oltre al forte legame territoriale sono le diverse esperienze che si stanno costruendo, che gli permettono di brillare di uno spirito di adattamento del tutto spontaneo. La crisi qui ha limitato gli acquisti in certi negozi ma li ha spronati ad occuparsi della terra e a gestire alcune serate al Circolo Arci o ad aprire una birrificio poco più là. Quello che sembra un naturale ricambio generazionale qui ha il pregio di essere un’inconsapevole strategia di sopravvivenza, che li sta segnando il futuro in positivo lasciando loro il privilegio di continuare a giocare per strada.

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