I cinesi e la rendita di Prato

Il commento

Anna Beltrame

Anna Beltrame

Firenze, 28 luglio 2016 - «RICORDAVO una città avida di impresa, la ritrovo adagiata sulla rendita». La città è Prato, le parole di Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis che per primo studiò e magnificò quello che all’epoca era un distretto modello, per dinamismo, fantasia, ricchezza distribuita. Erano altri tempi. La rendita è invece quella che da anni molti pratesi hanno costruito su una delle comunità cinesi più grandi d’Europa, un distretto parallelo in cui purtroppo l’illegalità prevale, ma in cui si lavora, giorno e notte, spesso in condizioni terrificanti. La ricchezza di Prato oggi sono anche gli affitti che i cinesi pagano per centinaia e centinaia di capannoni, spazi un tempo occupati dalle imprese italiane, nel frattempo chiuse o fallite, in cui migliaia di persone vivono e lavorano in condizioni di quasi schiavitù.

CI SONO voluti i sette morti del rogo di via Toscana, tre anni fa, perché i riflettori dell’interesse nazionale finalmente si accendessero su questo medioevo dei diritti e arrivassero i rinforzi per potenziare i controlli. Sono aumentati i sequestri degli immobili e le sanzioni a carico dei proprietari; per quella tragedia ci sono state le prime sentenze di condanna anche per i pratesi, che non potevano non sapere.

Così adesso i cinesi non si fidano più di lavorare nei capannoni e cercano case in affitto. Appartamenti da trasformare in abitazioni insalubri, con il cartongesso a dividere i loculi in cui si dorme, dallo spazio per i telai: centinaia di ordinanze per abusi edilizi nelle abitazioni sono state emesse negli ultimi mesi.

Le lungaggini della giustizia italiana – a Prato aggravate dall’endemica carenza di personale del tribunale – non facilitano il lavoro di chi cerca di far rispettare le regole. Ma non si tratta solo di legalità. Per tanti pratesi dovrebbe essere anche un problema di coscienza.