"Il popolo, l’amicizia e la fede. Così catturai il Palio in una foto"

La Festa secondo il reporter Francesco Cito, in mostra al Santa Maria

41 I CONTRADAIOLI DEL NICCHIO ENTRANO IN PIAZZA.PUGNI TO_WEB

41 I CONTRADAIOLI DEL NICCHIO ENTRANO IN PIAZZA.PUGNI TO_WEB

Siena, 15 agosto 2016 - «Non il cavallo, non il fantino. È il popolo che mi interessa».

Perché?

«Perché volevo, dovevo capire. Non è facile capire, per chi come me arriva da fuori. L’anima di questo posto non la si vede da nessuna altra parte. E io sono stato ovunque, in pace e in guerra. Sugli altipiani dell’Afghanistan e nella Striscia di Gaza. Sotto le bombe coi combattenti. E tra i proiettili delle faide di mafia. Ovunque, con la mia macchina fotografica. Orrore, meraviglia, amore. Ma quello che si trova qui altrove non c’è».

E cos’è?

«Amicizia. È questo, soprattutto».

Francesco Cito, fra i più grandi fotoreporter del mondo, è un nome indissolubilmente legato a Siena e al suo Palio che gli valse, nel 1996, il World Press Photo. Adesso torna con una mostra al Santa Maria della Scala: dal 29 ottobre, per l’Art Photo Travel Festival.

Amicizia, diceva...

«Sì. Lo spirito dei luoghi plasma lo spirito delle persone. E a Siena quello spirito sopravvive al tempo, a tutto. Invincibile».

Il Palio è una guerra.

«Però è anche il suo contrario. Mi spiego: il Palio è l’incarnazione del sentimento che anima la guerra, ovvero la necessità dell’uomo di trovare uno sfogo ai propri istinti. Ma questa è una guerra controllata, una guerra con delle regole. Quindi non è la guerra. È la sua messa in scena... Un po’ come una bella fotografia».

Di cosa ha bisogno una fotografia per essere bella?

«Della scenografia. Della messa in scena, appunto. Poi c’è lo scatto. Lo scatto è improvvisazione, è vita, è la capacità di cogliere l’attimo. Ma la scenografia: è quella che fa la differenza tra la vita e la sua foto. E ce l’ha solo il fotografo, nella testa. È lui il regista di quell’attimo di vita che è la foto. La bella foto».

Nel popolo del Palio, diceva, c’è la bellezza che lei andava cercando.

«La bellezza è nel Palio lo spirito di corpo, di armonia, di fede che nutre il popolo della contrada. Restai affascinato, travolto, quando respirai quella fede, quando la fotografai. In tutto ciò il cavallo è solo un tramite, quasi la scusa affinché lo spirito resti forte, indissolubile. È questo il senso ultimo del Palio. È, o meglio, era...».

Cioè?

«Qualcosa si è perso, da quel mio primo Palio: 1980».

Nicchio.

«Sì, da sempre».

Una scelta?

«Un caso. Il fato».

Racconti.

«Arrivai a Siena per un reportage. Chiesi aiuto a Federico Sani, all’epoca direttore dell’Azienda Autonoma del Turismo. Il Nicchio correva, mi mandò da loro. Fotografai, catturai. Al Nicchio andò malissimo, ma io non cambiai contrada. Restai lì, ero diventato uno di loro, malgrado tutto».

Amicizia.

«Quella vera. Notti in contrada fino alle 3. Carte, chiacchiere e spaghetti... Ma ora è diverso».

In cosa?

«Tutto più finto. Troppe regole, regole inutili. Gli animalisti, le assicurazioni, le attenzioni...».

È il politically correct.

«Uccide».

Per questo non indossa più il fazzoletto del Nicchio?

«Il fazzoletto... Beh, quello mi salvò la pelle. Afghanistan, anni ’80. Finii nelle mani dei mujahiddin, pensavano fossi una spia sovietica, volevano ammazzarmi. Poi videro il fazzoletto del Nicchio, non me ne separavo mai. E io dissi: è la bandiera del mio Paese. Allora loro sorrisero, iniziarono a baciarla. Non ero un russo, potevo vivere».

E adesso?

«È finito in Palestina, quel fazzoletto».

A chi?

«Ai guerriglieri, sporco del mio sangue...».

Un’altra storia.

«Di guerra, d’amicizia e d’amore, anche quella. Come il Palio».