La città del fare sui monti In viaggio con la bellezza

Abituati a lavorare a ritmi intensi, negli anni i pratesi hanno imparato ad apprezzare sci ed escursioni. Grazie a Jolly, Cai e le "city quitters"

di Roberto Baldi

Eravamo figli della zecca onnipotente e del figliolo suo detto zecchino della cambiale del conto corrente e del soldo uno e trino. A noi progenie del Datini non passava nemmeno per la testa di andare a frugare la montagna. Non ci fu mai in passato corrispondenza d’amorosi sensi fra noi e le cime. I nostri 61 metri sul livello del mare, anche quando erano più frequenti le nevicate (nel 1985, nel 1991 e nel 2010 le più copiose) ci consentivano il più delle volte di vederla un giorno per strada o ai vetri delle finestre. Se durava un giorno di più, leggevi titoli cubitali in cronaca di Prato a deprecarne i danni e l’interrogazione del consigliere comunale zelante a invocarne i rimedi. Poi un po’ di benessere in più, il conto in banca che cresceva, il bisogno di liberarsi dalla routine lavorativa e magari la casa all’Abetone ci abituarono al pantheon domenicale dello sci e poi alla settimana bianca. Cominciammo ad attendere la neve con ansietà come la ragazza dei primi appuntamenti amorosi a volte puntuale, altre volte volutamente ritardataria per lasciarsi desiderare. Imparammo a frequentare la montagna, quella pistoiese in particolare perché più vicina al mordi e fuggi del fine settimana, e scoprimmo il paradiso all’improvviso, grazie all’attrezzatura che ti fornivano le sorelle Coppini di piazza Ciardi con quel sorriso che t’illumina d’immenso per affrontare i 50 chilometri di piste distribuite su quattro vallate dell’Abetone a contatto con la natura, la luce che ti resta negli angoli degli occhi.

Vi si avventurarono in tanti. Lo Jolly Sci Club organizzava addirittura il viaggio del sabato di prima mattina. I pullman della gita ti portavano a godere l’Abetone in quella sensazione di catarsi che si prova immergendosi nel silenzio interrotto solo dallo scorrere dell’acqua dei torrenti e dalle gare periodiche di sci allora numerose, con Giuliano Paoletti inappuntabile cronometrista nazionale e la moglie Gigliola campionessa di glamour anche a 80 anni suonati. Chi sciava bene all’Abetone diventava Celina Seghi, che vinse di una medaglia di bronzo ai mondiali di Aspen (1950), o Zeno Colò primatista mondiale del chilometro lanciato (1947) e campione mondiale nel 1950 olimpico nel 1952, perché sulle piste impervie dell’Abetone devi usare il cervello, che è la parte più importante dell’attrezzatura sciistica.

A prender confidenza con la montagna ti aiutava anche il trekking, che ha nel nostro Cai (Club Alpino Italiano) l’associazione con i maggiori amanti delle vette, uno dei sodalizi più numerosi del centro Italia, fondato nel 1885 da Emilio Bertini che promuove da allora l’alpinismo in ogni sua forma. Li ritrovi ancor oggi quelli del Cai in escursioni collettive, in fila come una processionaria, nei versanti della Calvana, il tetto di Prato, deliziosamente descritti in un libro con titolo appunto "Calvana" che ti accompagna tra suggestive faggete, gole e grotte, corsi d’acqua, prati con lecci e noccioli, cespugli di biancospino ginepro e rosa canina, dove cinghiali, cervi, lupi, caprioli, volpi respirano con gli umani l’aria fresca della libertà, appena corretta dall’ingegnosità pratese che ha attivato una selezione di razza bovina detta Calvanina, originata dalla possente Chianina, e cavalli allo stato brado senza sella che non appartengono più all’uomo: lasciati in libertà, hanno scoperto le condizioni per vivere e riprodursi allo stato brado, in assoluta indipendenza. Sono loro gli abitanti in Calvana. Sono loro e la natura.

Li raggiungono nel fine settimana anche gruppi individuali, come quello che con neologismo inglese si chiama "city quitters" (ovvero chi vuole allontanarsi dalla città), in cammino ogni domenica mattina verso le colline in un’escursione rigorosamente al femminile in mezzo alle orchidee selvatiche e alle primule che stanno per uscire dall’inverno.

Messe da parte le mimose che arriveranno festose l’8 marzo, abbandonata la ritualità che non si addice alla città del fare, una parte dell’universo femminile pratese ci ha insegnato a vivere la vita della montagna, con l’unica raccomandazione di non stancarsi troppo dopo aver goduto la giornata fra boschi e valli d’or al canto della "montanara".