Il caso Rubens e i dipinti scomparsi da Pisa

L’inchiesta genovese che coinvolge l’ufficio esportazioni della Soprintendenza e le altre indagini sui capolavori trafugati dal San Matteol

I riflettori di nuovo accesi sulla Soprintendenza di Pisa per il caso Rubens, e in particolare sul suo Ufficio Esportazioni, chiuso dal 2019 in seguito ad analoga inchiesta della Procura di Pisa, riaprono il quaderno della memoria e rimandano ad altri casi recenti, o almeno di recente venuti a galla e risalenti a decenni fa. Ancora avvolta nel mistero è la sorte del dipinto legato alla storia di Pisa "La giovane Tora nella prigione domestica conversa col vescovo di Jaen" (Tora è l’altro nome di Chiara Gambacorta), la cui denuncia ai Carabinieri del Nucleo partì grazie alla collaborazione tra La Nazione di Pisa e una funzionaria della Soprintendenza dopo la segnalazione di uno storico dell’arte. Da quanto ricostruito sulla base dei fascicoli posseduti dalla Soprintendenza, la tela, maestosa, si trovava fino al 1968 nella Chiesa di San Domenico in Corso Italia e fu inviata assieme a un’altra, gemella raffigurante Maria Mancini a restaurare nella bottega Gazzi di Lucca. Il soprintendente di allora, Guglielmo Malchiodi, firmò i documenti che certificano saldo e collaudo delle due opere che però per molti anni sono rimaste neglette. Tanto che, solo dopo la segnalazione della loro sparizione, nel 2018, si è scoperto che una di esse (Maria Mancini) era stata catalogata con nome diverso rispetto a quello registrato e che si trovava, chissà da quanto tempo. Di Tora, invece, nessuna traccia. Questa non è la sola misteriosa sparizione di beni storico artistici dalla Soprintendenza pisana. Ancora in corso le ricerche per il recupero degli ultimi quattro dei sedici quadri venduti illecitamente nel mercato antiquario e provenienti dal Museo di San Matteo, da dove nel 2003 erano stati mandati a restaurare ma il restauratore (lo stesso di Tora e Maria) ne aveva restituiti solo cinque tenendo per sé il resto. Per quasi 11 anni nessuno dei dirigenti del tempo, in Soprintendenza, si era praticamente accorto che mancavano all’appello 11 dipinti. Un traffico d’arte del valore di 4 milioni di euro. Una situazione del tutto anomala se si pensa che la tutela e la conservazione dei beni storico-artistici sarebbe il compito principale di chi lavora in questa istituzione. Scarsa e rarefatta, in ispecie tra i comuni cittadini, è la conoscenza relativa ai beni culturali e al ruolo degli uffici esportazione che dipendono dal Ministero della Cultura. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico. Se un cittadino italiano vuole trasferire all’estero un’opera d’arte di sua proprietà e di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga a oltre 70 anni, dal valore superiore a 13.500 euro, deve presentare ad un Ufficio Esportazione Oggetti d’Arte e di Antiquariato la richiesta di rilascio di attestato di libera circolazione. Con questo attestato il Ministero dichiara che quel bene può lasciare il territorio ma può altresì negare il permesso e se l’opera risulta di particolare valore e interesse può acquistarlo in prelazione. Una volta richiesto il permesso all’Ufficio, i suoi dipendenti eseguono accurati controlli nelle banche dati relative e in primo luogo in quelle dei beni scomparsi, oltre a valutarli dal punto di vista storico artistico e a effettuarne la stima. Tutti passaggi che richiedono una importante e amplissima competenza tra archeologia e storia dell’arte universale, non sempre facile da reperire in uffici ormai ridotti ai minimi termini di personale.

R.P.