Storia di un piatto povero diventato gourmet

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Dal bosco al mulino la farina di castagne della Lunigiana Dop conquista sempre un posto a tavola. Un viaggio lungo molti secoli. Le antenate delle castagne di oggi nel destino avevano uno scopo: salvare la gente dalla fame. Lo ricorda Giovanni Antonio da Faie (Malgrate 1409-Bagnone 1470), lo speziale lunigianese che racconta la carestia del 1456 in Lunigiana: "…se perdete el panigo e le castagne, che sono più che y due terzi del pane de Lunixana". Cucina poverissima, che lentamente si evolve lungo un faticoso tragitto tra storia e costume.

Se si pensa che ancora nel 1581 Michel de Montaigne nel suo "Viaggio in Italia" racconta che, sostando a Pontremoli, mangiò semplicemente "cacio come si fa verso Milano e contrade d’intorno Piacenza e delle olive senz’anima con olio e aceto buonissime", si comprende come mangiare in Lunigiana sia sempre stato un problema. Ma ogni tanto per il popolo, consumatore principe di castagne, c’era l’occasione di riempire lo stomaco altrimenti. Quando moriva una persona importante, come il marchese Giorgio da Bagnone ad esempio. "Nell’800 - dice l’etnologo Riccardo Boggi - nel fivizzanese si producevano 24.104 staia di grano a fronte di 42.853 staia degli altri cereali minori insieme, mentre continuava a detenere il primato assoluto la produzione di castagne con 60.609 staia". Tra le novità importate dal Nuovo Mondo la patata fu l’ultima a comparire sulle mense europee. Arrivò in Lunigiana nel 1777 introdotta da un certo Biagio Grilli di Adelano. Poche le notizie sulla coltivazione del granturco nel secoli XVI e XVII, quando la farina gialla veniva importata. "Fagioli, pomodori, peperoni, ma soprattutto il granoturco e le patate – conclude Boggi - avevano arricchito di sapori le mense dei lunigianesi senza stravolgerne la tipicità". Poi arrivò il tempo di una maggiore disponibilità di farina di frumento e in tavola fece la sua comparsa il testarolo.

Natalino Benacci