
I Manges in uno scatto realizzato durante un concerto negli anni Novanta
La Spezia, 7 agosto 2025 - “Non abbiamo cercato di patinare il passato. Ma quello che c’è racconta una storia. Una storia che non è solo nostra, ma che condividiamo con tante altre band come noi. Grazie di farne parte”. Sono le parole di Massimo “Mass” Zannoni, una delle anime di Manges insieme ad Andrea e Manuel; nati nel lontano 1993 in riva al Golfo dei Poeti, sono approdati nei circuiti punk rock di mezzo mondo. La loro storia, scatto dopo scatto, è raccontata in quello che definiscono “un racconto per immagini”: si tratta di “Punk rock – The Manges photo archive” (Tsunami Edizioni), che sarà presentato domani sera alle 21 nell’Arci Skaletta Rock Club di via Crispi 168 alla Spezia, il locale in cui sono sbocciati: 348 pagine che raccontano una straordinaria avventura. Mass, Manuel e Andrea dialogheranno con Diego Ballani, per raccontare quest’opera sui generis. Un libro che si fregia della “benedizione” del grande Cj Ramone, che parla dei “suoi” Manges nella prefazione del volume. “Negli anni trascorsi da quando suonavo nei Ramones, ho avuto la fortuna di vivere abbastanza a lungo da vedere l’eredità e la leggenda della band crescere ben oltre ciò che i “Fast Four” avrebbero mai potuto immaginare. Tante band citano i Ramones come influenza - spiega - , ma sono quelle Ramonescore ad aver mantenuto più di tutte la fedeltà al suono e all’estetica che fecero notare i Ramones per la prima volta dal mondo. Tra queste, i Manges mi hanno sempre colpito in modo particolare. I loro dischi e le loro canzoni riescono a cogliere perfettamente l’essenza di ciò che rendeva lo stile e il sound dei Ramones così potenti, uniti a quel senso pop irresistibile che fa venir voglia di ballare. Ma è nei concerti dal vivo che i ragazzi della Spezia danno davvero il meglio. È lì che riescono a distinguersi da tutte le altre band, trasformandosi nei veri e propri RAMONES CORPS!!! È molto difficile per una band proveniente da un altro paese avere successo negli Stati Uniti, ma i Manges ci sono riusciti. Questi ragazzi sono rispettati nella comunità punk rock americana, e non è uno scherzo”. Ma cosa è stata questa straordinaria avventura fra musica e vita e cosa rappresenta questa nuova tappa? È Massimo “Mass” Zannoni, curatore del libro a spiegarlo.
Anzitutto, un commento sulle parole di Cj, che suonano come un'incoronazione.
“Cj aveva già detto alcune di queste cose dal palco del Punk Rock Raduno a Bergamo, qualche anno fa, quando era volato dalla California per suonare con noi e presentare il 45 giri che avevamo registrato insieme. Tra un pezzo e l’altro, senza preavviso, si è messo a parlare di noi al microfono. Sono frasi che ci hanno colpito, perché del tutto inaspettate e dette col cuore. A livello personale, è difficile spiegare cosa significhi. Da adolescente, prima ancora di avere un basso tutto mio, passavo ore davanti allo specchio cercando di replicare i suoi movimenti sul palco, studiando vecchie videocassette pirata dei Ramones live. Ritrovarmi oggi a suonare accanto a lui, condividendo palchi e lo stesso basso, ha qualcosa di surreale. CJ è una persona straordinaria, un artista vero e un caro amico. Le sue parole sono per noi motivo di orgoglio ma anche di grande responsabilità, e resteranno per sempre tra le cose più importanti che abbiamo ricevuto come band”.
Perché avete scelto di fare quest'opera e perché la vivete come un tributo?
“Sentivamo il bisogno di restituire qualcosa alla scena punk rock a cui apparteniamo. Non è un progetto pensato per celebrare i Manges come band, ma un tributo a una comunità che negli anni ci ha accolto, sostenuto e ispirato e che abbiamo contribuito a modellare. Il punk rock da cui veniamo è una famiglia globale, una rete di persone che si riconoscono e si supportano, anche a migliaia di chilometri di distanza. Questo libro non segue un ordine cronologico, né ha una finalità enciclopedica: proprio perché non vuole essere nostalgia, ma memoria collettiva. Volevamo che a parlare fossero le immagini, libere dal bisogno di spiegarsi troppo. Solo qualche breve didascalia, giusto per orientarsi, e poi via, pagina dopo pagina, dentro il caos meraviglioso che è stato (ed è ancora) il nostro percorso. Le foto raccolte in questo libro, per quanto spontanee o imperfette, raccontano tutto questo. Sono testimonianze vive, non solo ricordi. A distanza di anni, per me hanno acquisito anche un valore artistico, perché riflettono un’epoca che cambia: siamo passati dalla pellicola alle prime digitali, fino ai telefonini. Ogni immagine cattura un momento che oggi non potremmo più ricreare nello stesso modo. In realtà, questo progetto nasce dopo un primo tentativo. Qualche anno fa avevamo lavorato a un altro libro, che poi non abbiamo voluto pubblicare. Sulla carta era una buona idea: un giornalista di Milano aveva raccolto centinaia di interviste a persone che ci hanno conosciuto, seguito, o condiviso parte del viaggio con noi. L’intento era simile: raccontare una storia collettiva. Ma alla fine, proprio perché ognuno parlava bene degli altri e delle esperienze condivise, il risultato ci è sembrato troppo celebrativo, e ci ha lasciato addosso un senso di distanza. Abbiamo preferito lasciarlo lì, nel cassetto. Anni dopo, l’idea è tornata sotto forma di immagini. Nessuna spiegazione, nessuna intervista, nessun filtro. Solo foto. Perché certe storie è meglio raccontarle così, per frammenti, per suggestioni, senza bisogno di troppe parole. E questa, per noi, è quella giusta. I ragazzi di Tsunami Edizioni, che abbiamo contattato per primi proprio per la loro professionalità e credibilità, si sono innamorati del progetto fin da subito e insieme siamo riusciti a portarlo in stampa. Questo libro guarda indietro con gratitudine e avanti con curiosità: è un omaggio a chi ha condiviso il viaggio con noi e un’introduzione per chi ci incontra ora per la prima volta”.
Parlate di "memoria collettiva" della scena punk. Ci spiega cos'è e perché questo genere è così inclusivo, rispetto ad altri?
“Personalmente mi riferisco a quei momenti che non appartengono solo a chi li ha vissuti in prima persona, ma che diventano parte di un racconto condiviso. La nostra storia è anche questo: una rete di persone e di esperienze che si intrecciano nel tempo, spesso al di là dei confini geografici. Proprio perché con il termine punk da sempre si cerca di definire qualcosa di complesso, sfaccettato e in continuo cambiamento, che va ben oltre un certo tipo di sonorità, posso solo raccontare la nostra storia, quella di noi tre: Manuel, Andrea e me. Quando abbiamo iniziato, nel 1993, un punto di riferimento importante per entrare in contatto con questa scena internazionale era Book Your Fucking Life, una sorta di elenco del telefono pubblicato dalla rivista Maximum Rocknroll di San Francisco e la ordinavi per posta. Conteneva contatti di band, etichette, locali e booking agent da tutto il mondo. Anche noi ci siamo trovati lì, ed è così che abbiamo conosciuto tante persone e costruito legami che durano ancora oggi. Era un modo molto diretto e concreto per far circolare informazioni e creare connessioni, prima ancora che ci fosse internet. Un altro esempio di inclusività nel punk è il Punk Rock Raduno, festival che si tiene ogni anno a Bergamo e che è stato fondato da Andrea, il nostro cantante e chitarrista. Il motto del festival è semplice ma chiaro: NO RACISM, NO SEXISM, NO HOMOPHOBIA, NO VIOLENCE, ALL AGES: WE ARE A HAPPY FAMILY”.
Raccontate il vostro vissuto di band: come lo rivivete e com'è stato?
“A rivederlo oggi, sembra tutto surreale: i tour all’estero, i dischi, gli alti e bassi, le prove nei garage, i fan, gli incontri con i nostri idoli …Quando appena ventenni ci siamo trasferiti a Londra a cercare la scena punk del ‘77 che non esisteva più o firmare a Tokyo dischi non avresti mai pensato sarebbero usciti dell’Italia. Ma la verità è che, mentre succedeva, lo vivevamo come qualcosa di naturale, a ripensarci anche avventato, improvvisato, un giorno alla volta, un locale alla volta. Come lo viviamo ancora oggi. Il gruppo è sempre stato un’estensione della nostra vita. Nessuno di noi ha mai pensato di “sfondare” o diventare famoso, famoso per chi, poi. I nostri stessi punti di riferimento erano band per lo più sconosciute ai molti al tempo, roba che non trovi su Spotify neppure oggi, nell’era del tutto e subito. Volevamo solo suonare, e questo ci ha portato lontano, a pensarci, parecchio lontano. Rivivere tutto attraverso le immagini è emozionante, ma anche strano: alcune cose le avevamo dimenticate, altre sono rimaste vivissime. In ogni caso, ci sentiamo fortunati ad aver potuto vivere tutto questo insieme, per così tanto tempo”.
Nell'intro scrivete: "è per la prossima generazione di outsider. Speriamo ti faccia venir voglia di dare vita a qualcosa. Di girare il mondo. Di suonare a tutto volume. Far ballare la gente. Incontrare i tuoi eroi. E magari, se sei fortunato, non diventare famoso". Voi stessi avete avuto tanto da altri gruppi punk rock e tanto avete dato: perché per voi è così importante lo scambio?
“Un esempio pratico di cosa intendiamo per “scambio” è la Skaletta Rock Club, patrimonio della Spezia. Aperta nel 1994, è da sempre il nostro quartier generale (non solo per noi), un luogo che negli anni ha dato spazio a persone, progetti e situazioni molto diverse tra loro. All’inizio c’erano i pensionati che giocavano a carte e noi che suonavamo musica scassata tra i tavoli da biliardo. Nessuno ci doveva giudicare, approvare quello che facevamo, guardare come eravamo vestiti, farci passare alcuna selezione. Daria e Federica, giovanissime e temerarie quando l’hanno fondata, ci hanno dato fiducia e libertà, e hanno continuato negli anni. La Skaletta ha sempre saputo tenere insieme le esigenze della scena e quelle della comunità locale: rassegne di cinema indipendente, dibattiti, presentazioni, raccolte fondi, feste della comunità dominicana, serate hip hop, stand-up comedy… Punk, metal, reggae, techno, blues, mod, dark: non c’è una band spezzina che non abbia suonato su quel palco, così come moltissime band internazionali. È diventato uno spazio leggendario, noto in tutto il mondo, che ha legato il nome di La Spezia a una scena musicale viva e indipendente. Una così piccola realtà che in modo discreto e senza chiedere nulla a nessuno dopo tre decenni può vantare numeri da record per presenze, concerti, attività culturali autofinanziate. La Skaletta è cresciuta con noi e noi con lei. Anche Andrea, con il Punk Rock Raduno, porta avanti questa idea: ogni anno il festival dà spazio a decine di band, e con la sua etichetta musicale Striped Records continua a produrre e sostenere gruppi emergenti. Anche questo, in fondo, è restituire qualcosa di ciò che abbiamo ricevuto. Questo è lo scambio da cui veniamo: spazi condivisi, poche regole ma chiare, e voglia di mescolarsi. Nessun grande discorso, solo cose che succedono, e lasciano il segno”.
Quella band che aveva iniziato a muovere i suoi passi in riva al Golfo è diventata un punto di riferimento internazionale: vi aspettavate questo, ma soprattutto, vi aspettavate una successione di successi, persone, esperienze?
“Non so bene cosa significhi “successione di successi”, ma se ti riferisci al fatto che oggi il nostro nome è conosciuto da molti, la risposta è: assolutamente no, non ci aspettavamo nulla di tutto questo. Capisci che se il tuo sogno è fare una demo in cassetta per suonare alla Skaletta, e non essere selezionato per un talent in tv, allora tutto quello che viene dopo è un’avventura inaspettata, per cui siamo sinceramente grati. È una questione di aspettative, ma anche di integrità. E la tv, in ogni caso, non la guardavamo. Abbiamo iniziato a suonare senza alcuna ambizione se non quella di fare qualcosa di nostro, qualcosa che non fosse la solita musica che si sentiva in giro. Imitavamo i Ramones, ci divertivamo, punto. Non c’era un piano, non c’erano obiettivi, facciamo ancora fatica a capirli, i piani. All’epoca sembrava già un traguardo suonare fuori La Spezia, figurarsi all’estero. Poi, strada facendo, le cose hanno iniziato a succedere. Abbiamo incontrato persone che facevano le stesse cose che facevamo noi, ma in altre città, in altri paesi. Etichette, locali, fanzine a cui siamo piaciuti, che hanno visto qualcosa in noi, che ci hanno invitato a suonare. Tante piccole conquiste, un po’ per caso, un po’ per ostinazione. Siamo cresciuti così, passo dopo passo, restando dentro quella scena punk internazionale che ci ha accolto e in cui abbiamo sempre trovato i nostri riferimenti. E Las*Pezia (nome con cui viene chiamata la città nella scena rock non mainstream, ndr) è casa nostra”.
Rifareste tutto?
“Sì. E’ stato un onore e un privilegio crescere con queste persone speciali, sopra e sotto al palco, al bancone della Skaletta”.
Quale sarà il prossimo passo dei Manges?
“Continuare la camminata sul filo del rasoio. La road to ruin, una giostra dove non vinci mai la bambolina. Ottimisti e pessimisti allo stesso tempo. Alla Manges”.
Chiara Tenca