Barlucchi, l'uomo delle maschere e l'esperienza sul set de "Il Colibrì"

Dal teatro al cinema, il poliedrico artista fiorentino racconta i giorni sul set del film di Francesca Archibugi dal romanzo di Veronesi

Duccio Barlucchi in scena

Duccio Barlucchi in scena

Firenze, 22 settembre 2022 - C'è tanta Toscana ne "Il colibrì", il film in arrivo nelle sale il 20 ottobre diretto da Francesca Archibugi con Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Nanni Moretti, Bérénice Bejo. Non solo perché tratto dall'omonimo romanzo del pratese Sandro Veronesi, ma anche per la presenza sul set di Laura Morante, Massimo Ceccherini e di Duccio Barlucchi. Proprio con quest'ultimo - 65 anni, senese di nascita e fiorentino d'adozione, regista, attore di teatro e cinema, autore teatrale e di cortometraggi, mascheraio e fondatore e direttore artistico del Teatro d’Almaviva  di Firenze - racconta com'è andata sul set.

Barlucchi, com'è arrivato nel cast?

"E' stato piuttosto singolare: in realtà la produzione cercava l'attore che potesse interpretare Pierfrancesco Favino da piccolo. Mio figlio poteva avere una somiglianza così abbiamo fatto un video e lo abbiamo mandato, dato che c'ero ho pensato di inviare anche il mio materiale. Poi hanno chiamato...".

Aveva letto il libro prima di arrivare sul set?

"Sì, a quel punto ho letto il romanzo e poi abbiamo girato. Sono stati tre giorni di lunghe attese e improvvise messe in moto, come succede per il cinema. Diciamo che sono stati tre giorni in smoking, girati in una villa a sud di Tivoli. Una bella esperienza, così come è stato piacevole lavorare con Francesca Archibugi, una regista che non alza mai i toni. Ci sono stati dei bei momenti di confronto".

Lei ha una lunghissima esperienza teatrale. Il salto dal palco al set cinematografico è così traumatico?

"Si tratta di esperienza molto diverse, il teatro ha una sua distanza e una sua fiamma, che deve uscire con potenza, mentre il cinema è un lavoro di sottrazione. A maggior ragione per l'attore che viene dal teatro. E' un lavoro opposto".

Dopo la stagione passata - quella della ripartenza - il 2022-2023 sarà l'anno della normalità per il teatro. O così si spera.

"Vedo una gran voglia di fare, di incontrari, di creare canali espressivi, perché siamo molto sotto pressione in questo momento storico e abbiamo bisogno di quel momento rigenerante, in cui dire ad alta voce quello che deve essere detto. Anche a sé stessi".

Non si può parlare di lei senza citare le sue maschere. Da dove nasce questa passione?

"La passione per le maschere ce l'ho da sempre. A teatro le ho usate fin dall'inizio, nel 1977, all'epoca facevo artigianato e scoprii che fare maschere non solo era bello, ma che mi dava anche da vivere. E a Firenze, alle Cure, ho il mio atelier".

E di maschere se ne vedono molte nel suo spettacolo "Coriandoli visionari". Qual è la sua genesi?

"E' un ritorno in scena in solitario dopo anni di spettacoli condivisi. Un progetto nato nel lockdown, in quel tempo sospeso in cui si era fermato il mondo quindi potevo fermarmi anch’io, adatto a far depositare, raccogliere, ritrovare, elaborare; riaprire cassetti reali e interiori in cui dormivano spunti, emozioni, poesie e allegrie, semiperdute ma vogliose di risveglio. In atelier ho ritrovato maschere fatte in altre epoche, da quaderni antichi e recenti sono apparse idee, invenzioni e lampi d’un momento, troppo piccoli per uno spettacolo, quindi restati dietro le quinte; col tempo alcuni scolorano, ma altri continuano ad avere senso, freschezza, cuore, e anelano diventare azione, parola espressa, magia del teatro. Così ha iniziato a prendere forma il progetto, con storie e personaggi inediti vogliosi di nascere, con e senza maschere".

Dopo il successo della prima, speriamo di vedere presto questo spettacolo nelle sale toscane.

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