Liberazione, il partigiano Arrivabene ricorda: "È una scelta che rifarei anche ora"

Vittorio Cecconi, 99 anni, con la brigata Lanciotto è andato all’assalto della Fortezza da Basso: "Sparammo un caricatore a testa per sembrare di più: abbiamo rischiato grosso, ma ce l’abbiamo fatta"

 Vittorio Cecconi (Foto Germogli)

Vittorio Cecconi (Foto Germogli)

Firenze, 11 agosto 2022 - ​La sua scelta l’ha fatta nel ’43 e la rifarebbe oggi, che ha 99 anni. "Di fare il partigiano, in fondo, non ho mai smesso. Sono stato diciannove anni in consiglio comunale a Reggello e vicesindaco dal ’70 al ’75, quindi non ho mai smesso di lottare. E, a proposito di lotta, ora dobbiamo sostenere l’Ucraina che si trova assediata". Vittorio Cecconi, classe 1923, come nome di battaglia ha scelto Arrivabene, ricordo affettuoso di un commilitone nell’esercito, che analfabeta, chiedeva a Vittorio di scrivergli le lettere a casa. L’11 agosto ’44 con i compagni della brigata Fanciullacci, Arrivabene la Martinella non l’ha sentita suonare, ma si è ritrovato lo stesso in linea, all’attacco della Fortezza da Basso.

 

Vittorio, cosa ricorda di quel giorno?

"E’ stato proprio allora che ho rischiato di più. I tedeschi ci sparavano dalle mura della Fortezza e noi, che eravamo un’ottantina, ci eravamo rintanati nei portoni. A un certo punto, mi sporgo per vedere meglio e se non fosse stato per “Frasca“, mio fratello Armando, che mi strattonò, sarei stato preso in pieno da una fucilata. Il segno di quel colpo sullo stipite della porta c’è rimasto per anni e sono tornato anche a vederlo. Era grande come una noce. Ci hanno quindi dato l’ordine di caricare il fucile e sparare un caricatore a testa, in modo da fare una confusione tale da dare l’impressione che fossimo un esercito. Poi inastata la baionetta, aspettammo che finissero gli spari per assaltare il portone principale della Fortezza".

E cosa successe?

"Lo trovammo aperto. Dentro non c’era nessuno. I tedeschi erano scappati dalla porta posteriore, temendo forse che fossimo davvero un battaglione. Lì siamo rimasti per una ventina di giorni, fino alla consegna delle armi agli inglesi e agli americani".

Quando ha scelto di diventare partigiano?

"Ero militare a Torino e dopo l’8 settembre ’43, dopo essere sfuggito ai rastrellamenti tedeschi di militari sbandati, sono tornato a Donnini, dove abitavo. Là però mi aspettavano i fascisti, e per costringerci ad andare con loro ci incendiarono la casa. Fu facile decidere da che parte stare. Da allora, alla fine del ’43, ho preso parte alla Resistenza insieme ai miei tre fratelli. Mi unii alla divisione Arno in Pratomagno e fui aggregato alla Lanciotto, al comando di “Ardito“. Nell’estate del ’44, da Secchieta, riuscimmo a raggiungere i compagni della Sinigaglia, attestati su Monte Scalari, sopra Poggio alla Croce. Poi siamo stati una decina di giorni nei boschi di Candeli a preparare la discesa su Firenze, attraversando l’Arno a Rovezzano, per poi arrivare a San Salvi".

E dopo?

"In città siamo entrati in un rifugio dove non c’era nulla da mangiare. Il magazzino dove avremmo dovuto trovare provviste e vestiario era stato assaltato dai tedeschi. Per tre giorni abbiamo solo bevuto l’acqua da un secchio che ci portava ogni tanto una signora. Dopo tre giorni siamo andati in via Mannelli, in una tipografia abbandonata. Lì siamo rimasti altri quattro o cinque giorni: per nostra fortuna, arrivava da mangiare. A un certo punto abbiamo sentito scoppiare le mine dei ponti. Siamo fuggiti di corsa; speravamo che uscendo per le strade ci venisse dietro anche la popolazione, invece ci applaudivano dalle finestre e basta. Rimanemmo ancora nascosti per qualche giorno, aspettando il segnale giusto. La mattina dell’11 agosto iniziò la battaglia".

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