"Questo era mio fratello", Juan Martin Guevara a Firenze racconta il Che / FOTO

Juan Martin vive a Buenos Aires. In questi giorni è in città per presentare il libro che racconta il fratello

Una delle immagini tratte dal libro "Il Che, mio fratello"

Una delle immagini tratte dal libro "Il Che, mio fratello"

Firenze, 5 dicembre 2017 - «Se avesse vinto il Che, oggi i Paesi latino americani sarebbero tutti degli Stati liberi, indipendenti, sovrani e socialisti e ci sarebbero gli Stati Uniti dell’America Latina». Juan Martin Guevara era un bambino quando suo fratello faceva il rivoluzionario, diventando la bandiera dei popoli oppressi in cerca di libertà.

Ma il ricordo e l’esempio di quell’eroe di famiglia lo ha accompagnato tutta la vita. Ora, a distanza di 50 anni dalla morte del “Che”, Juan Martín, il minore dei cinque figli Guevara, ha deciso di “togliere dal piedistallo” il fratello maggiore per restituirci il volto umano del mito dilagato nel mondo dopo il suo tragico assassinio in Bolivia il 9 ottobre 1967. Il titolo del libro, edito da Giunti, dice già molto: “Il Che, mio fratello”, ed è scritto insieme al giornalista francese Armelle Vincent. Pagine che corse servono a lui per riannodare il filo dei ricordi e riconciliarsi con un fratello adorato ma ingombrante, e a chi le legge per conoscere un “Che” più intimo, inedito, prima che diventasse una leggenda.

Juan Martin Guevara è arrivato oggi a Firenze e domani, 6 dicembre, alle 21 sarà al Circolo Vie Nuove di viale Giannotti 13 per parlare del suo libro con Flavio Fiorani. «È essenziale comprendere che Ernesto all’inizio era un ragazzo normale. – racconta –. Dopo è diventato una persona eccezionale, che altri possono e devono imitare. I grandi uomini sono rari, ma esistono!» Juan Martin vive a Buenos Aires. Durante il regime militare è stato più di otto anni in prigione per le sue attività politiche e la sua parentela con Ernesto. Dopo la sua liberazione si è dedicato al commercio di sigari cubani e ha fondato l’associazione “Sulle tracce del Che”. «Ormai la parola rivoluzione ci fa drizzare i capelli, ci spaventa – spiega – . C’è una grande differenza con il passato. Ora abbiamo il terrorismo.

E la differenza è abissale: la rivoluzione porta il cambiamento. Il terrorismo vuole solo distruggere». Quanto al ritorno dei movimenti estremisti di destra in Europa, Juan Martìn sostiene che sia segno della gravissima crisi della sinistra, «che ovunque è in ritirata, non esiste o è frammentata. Ma il popolo sta comunque male, e dunque segue ciò che trova. Bisognerebbe che arrivassero nuovi partiti che sapessero come portare avanti davvero le istanze della gente». Il suo arrivo a Firenze coincide con la polemica per la bandiera con l’effige del Che negli uffici della Regione. E la sua risposta è lapidario a: «Chi pensa che Che Guevara sia incarnazione della violenza, senza dubbio è qualcuno con tanti ettari, molti soldi in banca o entrambe le cose; e dunque non vuole che la situazione cambi perché non vogliono perdere il molto che hanno.

Oggi il Che avrebbe molti nemici lotterebbe contro lo strapotere del mercato e le insidiose guerre ‘morbide’. Lotterebbe contro l’Ue, contro il Sudafrica, terra di gravissime discriminazioni, contro gli Usa ovviamente, ed i padroni della finanza, e anche contro i Brics, come l’India, dove ci sono disuguaglianze terribili. Sono tanti nemici, ma tutti fanno parte dello stesso sistema, la finanziarizzazione del mondo a danno dei popoli». Riguardo alla contemporaneità il suo sguardo è cupo: «Siamo come sul Titanic, diretti verso l’iceberg. La debolezza del capitalismo è sotto gli occhi di tutti, ma il popolo, a differenza che nel ‘68, per fare un esempio, è disunito e senza speranze. Ecco il punto in cui qualcosa si è rotto: ogni volta che c’è stata una crisi del capitalismo c’è stata una rivoluzione. Ma il tentativo, oggi è impedire, benchè il capitalismo sia di nuovo in crisi, che ve ne sia un’altra. La gente è attirata in un sistema di divertimenti, di distrazioni, in cui l’obiettivo è non far pensare nessuno. Perché altrimenti le persone si renderebbero conto di quanto stanno male».

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