Se tramontano populismi e campi larghi

Serve una nuova legge elettorale

Agnese Pini, direttrice de La Nazione

Agnese Pini, direttrice de La Nazione

Firenze, 19 giugno 2022 - Appunti e riflessioni di inizio estate. Il Paese reale teme il caro bollette, il rischio siccità, la guerra, i salari insufficienti, l’assenza di politiche di lungo respiro su redditi e lavoro. I partiti italiani, intanto, ribollono a temperature che gareggiano per virulenza con la canicola di questi giorni. Si fanno la guerra sui grandi temi (in primis l’invio di armi in Ucraina) ma poi è chiaro che i reali motivi di frattura anche interna alle stesse compagini abbiano ben altri presupposti: una generale perdita di potere, la disaffezione degli elettori (che alle ultime amministrative hanno disertato in massa le urne), il tramonto di un modello politico che non sta in piedi, e che rischia dunque di terremotare la prossima tornata elettorale, quella decisiva. Ovvero le Politiche del 2023.

Prima domanda: che fine hanno fatto i populisti? Di loro si cristallizza in queste ore l’immagine iconica di un duello alla spaghetti western: Conte da una parte, Di Maio dall’altra. Con la sensazione che davvero stavolta ne resterà solo uno. La miccia della disfida l’ha innescata l’esito drammatico del voto di domenica, con il tonfo dei pentastellati inchiodati dagli elettori ben al di sotto delle più nere previsioni. In realtà il clima tra l’ex presidente del Consiglio e l’attuale ministro degli Esteri era pessimo già da mesi.

Ora: non ha senso recitare il de profundis di un Movimento che i sondaggi danno tra l’11 e il 12%. Ma ha senso dire che è tramontata definitivamente una stagione, quella del grillismo alla prima maniera, che Conte non riesce più a interpretare. Quella dei due leader rivali è una mutazione uguale e contraria: Conte, nato di governo, è finito per provare a essere di lotta, con risultati poco credibili. Il Di Maio di lotta è invece diventato così tanto di governo che qualcuno oggi lo vorrebbe addirittura apparentare a un fantomatico nuovo polo di centro che punta al 10%. Ma che per la verità è ancora tutto da inventare.

Intanto a sinistra (pardon, nel fronte progressista) la domanda è un’altra: che fine farà il campo largo di Letta e del Pd? L’alleanza coi 5 Stelle, nata sulla base aritmetica di una convenienza elettorale (la sommatoria potenziale dei due partiti ai tempi in cui i pentastellati stavano ancora intorno al 20% poteva regalare aspirazioni governative), è già superata dai fatti. I centristi del resto giurano e spergiurano che «coi 5 Stelle non governeremo mai».

Si diceva che doveva nascere l’Ulivo 4.0, ma oggi di quel percorso fatto di simboli, ragionamenti e soprattutto primarie non si vede traccia. Ultima questione, virando verso destra: la coalizione composta da Fd’I, Lega e FI (grazie al traino di Giorgia Meloni) ha senz’altro vinto l’ultima tornata elettorale. Non solo: stando ai sondaggi, può aspirare a governare il Paese dal 2023. Eppure, anziché godersi la vittoria, mostra un tasso di litigiosità che rasenta le tentazioni di autoboicottaggio della sinistra che fu. Che dire ancora? Forse serve davvero una nuova legge elettorale. Per placare i bollenti spiriti. E soprattutto per garantire al Paese l’unica aspirazione che conta: essere governato nei prossimi cinque anni. Più che mai cruciali.