L’Afghanistan e le cose in cui speravamo

I talebani si sono ripresi Kabul. E allora è bene ricordarci adesso, per un momento, chi eravamo vent’anni fa

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

Firenze, 16 agosto 2021 - Dopo vent’anni, i talebani oggi si sono ripresi Kabul, quella città così oscura e lontana, divenuta suo malgrado il paradigma delle consapevolezze di tutto ciò che siamo. Di che cosa è il genere umano, di che cosa sono la politica e la storia, di che cosa sono i valori e gli ideali per i quali vale la pena esistere, di che cosa sono le donne, di che cosa significano i diritti umani e i diritti negati. E allora è bene ricordarci adesso, per un momento, in che cosa credevamo, in che cosa speravamo, che cosa temevamo, chi eravamo vent’anni fa.

Quando iniziò la guerra in Afghanistan avevo 16 anni. Su quella guerra, capendone molto poco, ero piena di dubbi. All’epoca, ancora scossi dalla strage delle Torri Gemelle, eravamo divisi in due fazioni, e occorreva per forza schierarsi: pro guerra e contro la guerra. Che significava pro Usa e contro Usa, che significava pro Bush e contro Bush. Altre sfumature non erano ammesse. Non mi piacevano quelle classificazioni: non ero certamente contro gli Usa, (sebbene, lo ammetto, non mi piacesse Bush), ma alla fine ero comunque contro quella guerra. Con la determinata e appassionata sensibilità degli adolescenti sentivo l’errore, e l’orrore, di quella guerra sommarsi all’orrore dell’11 settembre, ancora caldo di angoscia e di violenza. Si risponde all’orrore con l’orrore? Esiste la guerra giusta? All’epoca ne parlavamo tutti in questi termini: guerra giusta. Mi sembrava ipocrita e vile.

C’era poi la questione dei diritti umani. I diritti delle donne. I diritti negati. Ma quella che andava in scena nel lontano 2001 non era certo una guerra per i diritti. I diritti delle donne e i diritti delle minoranze (etniche, sessuali, culturali) sono da sempre usati per il tornaconto di altri scopi. Specie in tempo di guerra. A volte poi va bene, va comunque bene. Più spesso va male.

Passarono i mesi e velocemente gli anni. E velocemente ci siamo dimenticati, mi sono dimenticata, dell’Afghanistan e di quella guerra. Era forse una guerra giusta, davvero giusta, alla fine? Mi ero forse sbagliata? Erano arrivati davvero gli agognati diritti, davvero il Paese era cambiato in meglio? Forse sì. Semplicemente, non se ne parlava più. 

L’Afghanistan era tornato ignoto e lontano, le sue sorti irrilevanti e oscure. Fino ad ora. La storia ha ricucito rapidamente l’inizio e la fine di quella guerra mostrandoci il senso di un fallimento ideologico e politico, prima ancora che militare: il primato dell’occidente, la guerra giusta, i diritti negati, il bene e il male, il senso dell’umano. Pagine di giornali, libri interi, serate di dibattiti in tv: tutto si è polverizzato, il nostro disquisire e il nostro inutile scannarci sull’etica della lotta al terrorismo, il nostro vagheggiare giustizie democratiche, il nostro esportare valori, leggi, regole, pace, armonia. Abbiamo fallito nel nostro parlarci addosso, cercando la bontà della giustizia o il senso della storia che risanassero moralmente e culturalmente la ferita del terrorismo.

Di quell’ipocrisia ancora saldamente novecentesca (l’ideologia della guerra, la morale della guerra), restano oggi le immagini del nostro ministro degli Esteri al mare, degli uomini che precipitano dagli aerei in fuga da Kabul, delle lacrime della ragazza che sa che verrà uccisa senza capire perché è stata abbandonata. Perché la Storia l’abbia tanto presto messa da parte, svelandole brutalmente l’inganno a cui così tenacemente abbiamo noi stessi desiderato credere.