“Salvo per miracolo nella strage dell’Heysel, la mia famiglia mi aveva dato per morto”

Il racconto di Gianni Carpitelli, di Castelfiorentino, che era allo stadio in quella maledetta serata

Un'immagine della tragedia dell'Heysel

Un'immagine della tragedia dell'Heysel

Castelfiorentino (Firenze), 29 maggio 2023 – “Sono passati quasi quarant’anni, ma a me sembra ieri”. Gianni Carpitelli di Castelfiorentino, oggi 56enne, quel 29 maggio 1985 se lo ricorda bene. Anche lui era nella Z, la curva dello stadio Heysel di Bruxelles dove morirono 39 persone poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Riavvolgiamo il nastro e torniamo a quella data... “Avevo 17 anni e con mio fratello Enrico, di due anni più grande, avevamo trovato all’ultimo minuto i biglietti per la finale. Quando arrivammo all’ingresso dello stadio ci trovammo di fronte migliaia di inglesi già ubriachi. Prendemmo posto sulle gradinate che già si spezzavano sotto il nostro peso. Tirammo fuori sciarpe e bandiere e cominciammo a sventolarle. All’improvviso cominciò a piovere di tutto: pezzi di gradinate, bottiglie rotte. I tifosi inglesi avanzavano verso il nostro settore, spingevano sulla rete, finché non cedette”. Era la fine della festa e l’inizio della tragedia? “Sì, i tifosi si ritrovarono ammassati al muro, che ad un certo punto crollò. Moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita. Io fui sollevato dalla massa di persone. Andavo dove la folla mi portava. Fui tra i pochi che si trovarono incanalati verso il basso e passando dalla porticina d’ingresso della pista d’atletica, che la polizia cercava di chiudere, mi ritrovai in campo. Spaesato e senza più Enrico al mio fianco, mi diressi sotto la curva degli juventini e cominciai a chiedere aiuto. Un poliziotto mi afferrò e mi trascinò fuori dallo stadio, mi ammanettò e mi buttò su una camionetta insieme a due inglesi”. E dove la portarono? “Trascorsi sette ore in prigione, ignaro dello sviluppo della situazione. Non avevo documenti con me, li aveva Enrico, che non aveva la minima idea di dove fossi finito. Rimasi in cella fino al processo verbale a cui fui sottoposto alle 2. Parlavo un po’ di francese e in qualche modo riuscii a spiegare chi ero e le mie intenzioni. Le mie risposte furono convincenti perché poi mi rilasciarono”. Cosa successe dopo? «Mi ritrovai per strada a Bruxelles nel cuore della notte, senza un soldo né documenti. Un tassista mi indicò la strada per la stazione. All’ingresso mi trovai di fronte un tappeto di almeno 500 inglesi che bivaccavano e dormivano. Feci due passi indietro per buttare via le sciarpe della mia squadra. Sentii parlare italiano e chiesi aiuto». Chi l’aiutò? «Un giornalista de La Stampa e un ragazzo siciliano mi rifocillarono e informarono di ciò che era accaduto. Mi pagarono il biglietto fino al Lussemburgo, che poi gli rimborsai facendo un bonifico. Tornai a casa in treno e ricordo che alla stazione di Chiasso scesi e baciai il suolo italiano”. A casa cosa sapevano della tragedia dell’ Heysel? «I miei erano già andati all’aeroporto di Pisa per prendere il primo aereo convinti, ormai, di riportarmi a casa morto. Le loro speranze si erano ridotte al lumicino, perché nel frattempo mio fratello, dall’ambasciata italiana, era riuscito a contattarli e dire loro che non sapeva dove fossi finito. Prima di lasciare lo stadio, Enrico era venuto anche a cercarmi tra i morti. I miei furono avvertiti che ero vivo prima di partire per il Belgio”. Quando arrivò a Castelfiorentino? “Da quel tragico mercoledì riuscii a tornare a casa in treno il venerdì mattina. Enrico arrivò il giorno prima in aereo, convinto di avermi perso per sempre. Venne a prendermi mio babbo alla stazione di Firenze. Ricordo che era euforico: aveva i finestrini aperti e guidava allegro. Mia mamma invece ebbe una reazione completamente diversa: entrai in casa e la vidi uscire dal salotto in vestaglia e invecchiata di dieci anni. Mi chiese di andare subito a svegliare Enrico. Riabbracciai mio fratello alle 4 del mattino”. Dopo quella esperienza è cambiato il suo rapporto con lo stadio? “Ho continuato a frequentarlo. Ora ci vado un po’ meno per via dei vari impegni. La passione per la Juve però l’ho trasmessa ai miei figli di 28 e 19 anni, che adesso sono più tifosi di me”. La strage dell'Heysel ha insegnato qualcosa? “Mi sembra che le cose siano migliorate molto all’interno degli stadi e anche i rapporti tra le tifoserie. Da quella tragedia fatti così gravi non sono più accaduti. Certo, episodi da stigmatizzare ce ne sono ancora: penso agli insulti o ai cori razzisti, ma per fortuna sono sempre meno. Di sicuro l’educazione al tifo è importante: va appresa fin da piccoli. Tragedie come quella dell’Heysel non devono essere dimenticate: teniamo sempre viva la memoria”.