Un canto per tutti i morti sul lavoro. Nel ricordo palpitano di eternità

L’omaggio di Maurizio Maggiani alle vittime. Sono 772 in Italia da inizio anno, 23 solo in Toscana. Lo scrittore: "Il dovere di raccontare le vite annientate dall’assenza di diritti"

I funerali di Luana D'Orazio (FotoCastellani)

I funerali di Luana D'Orazio (FotoCastellani)

Firenze, 2 ottobre 2021 - Sono 772 i morti sul lavoro in Italia da gennaio. Solo in Toscana 23. La Nazione ha deciso di pubblicare le storie e i nomi delle vittime, a cui lo scrittore Maurizio Maggiani dedica una riflessione densa e commovente. Un’orazione civica per gli uomini e le donne della Spoon River del dovere.

Per queste donne, per questi uomini, per gli infiniti come loro ammazzati nel tempo dal loro lavoro, io non ho parole, non ne ho perché a questo punto sarebbe solo mancanza di rispetto, sarebbe solo l’ennesimo esercizio di retorica a beneficio delle coscienze che si sentono assolte.

Ogni mese in Italia una strage

Si muore di lavoro oggi come si moriva cent’anni fa, schiacciati, triturati, avvelenati, precipitati; perché chi non ha i privilegi di un giusto contratto, di un giusto trattamento, di un giusto orario, di un giusto rapporto con ciò che fa, lavora come cent’anni fa; e sarà così tra dieci, tra cento anni, se non cambiano le cose, e le cose che devono cambiare sono tante e sono anche troppe per chi il proprio lavoro lo offre e chi il lavoro altrui lo compra.

Sono cresciuto dalle mani di un operaio che con le sue mani pensava di poter costruire un mondo di dignità e bellezza, e questo mi ha educato a credere, che nel lavoro, nel giusto lavoro, ci fosse bellezza e dignità.

Dov’è il giusto nel lavoro che ferisce e uccide? Non ho parole per questi morti perché non vedo altro che annientamento e vergogna, la mia vergogna, di un uomo che ha saputo costruire bellezza e dignità per sé, ma non per i suoi fratelli lavoratori, non per coloro su cui si poggia il suo privilegio, per chi costruisce la sua casa, per chi tesse i suoi vestiti, per chi forgia il metallo della sua bella lampada, per chi trasporta il suo cibo, per chi glielo porta, per chi stampa i suoi libri.

Non ho parole, non quelle del mesto compianto, della circostanza, ma so che una cosa buona con le parole potrei fare, solo questo giornale non basta, e non ne basterebbero altri mille. So che l’unico modo di rendere giustizia, almeno ora, a questi morti, sarebbe raccontarli uno per uno, ogni vita, ogni vicenda, ogni volto, ogni amore, ogni dolore; perché ogni vita è grande, ogni vita ha diritto alla sua eternità, in una voce che non l’abbandoni all’annientamento, alla smemoratezza, ma la perseveri nel ricordo, ricordo vivo.

Non ho le forze per narrare di tutte quelle vite, ma ciò non mi libera dal dovere di provare a farlo, di ostinarmi. Guardo queste immagini e mi cresce nel cuore e sulle mie labbra una canzone senza fine che canti di loro. Sì, un canto; i morti non chiedono il pianto, il pianto è per i vivi, per loro, perché almeno un soffio, un palpito, li tenga ancora tra noi, una melodia senza fine che involi la loro bellezza, la loro dignità.